Quel dolore assoluto che spezza il mondo e i progetti di infinito
La paura di perdersi nel nulla e l’amore che non salva ma è tutto. Il romanzo di Michela Marzano
Quintana, la figlia adottiva di Joan Didion, era terrorizzata da un verso di Keats: “Perdersi nel nulla”. Ne aveva paura perché sentiva di essere arrivata dal nulla nella vita dei suoi genitori, bambina bionda e buona per cui sembrava fosse così naturale vivere, e svegliarsi la mattina, e andare a dormire la sera, scriveva sua madre nei libri, e invece quel giudizio era la conseguenza di una disattenzione, o di un desiderio presuntuoso: quella bambina aveva già profondità abissali, e buchi, e disperazione, e in seguito alcolismo, fino a una morte prematura, per malattia, fino alla fine di un fulgore che sembrava dovesse durare per sempre. “Lavati i denti, spazzolati i capelli, sta’ zitta sto lavorando”, secondo Quintana erano i detti di mamma, li aveva chiamati lei a pochi anni, scrivendoli su un foglietto che Joan Didion aveva ritrovato in garage. Quando un figlio muore, non si può guarire. È l’unico, vero dolore: la morte di un figlio, la pietra su cui misura tutta la sofferenza del mondo, la misura della vita anche. Possono una madre, un padre, continuare a vivere, cucinare, vestirsi, andare al mare, ridere, occuparsi di qualcosa, parlare di politica o di viaggi con un amico? Joan Didion ha perso la luce negli occhi, il suo corpo è diventato trasparente, lei che ora ha ottant’anni vive ogni giorno nella paura di perdere i ricordi di sua figlia, delle notti azzurre con lei, quando la luce sembrava non finire mai, e ha paura anche di perdere i suoi rimorsi: gli sbagli che ha fatto con Quintana, avere tutta la vita tenuto uno schermo tra lei e sua figlia per paura di perdere se stessa, non essersi sposta sull’abisso di quella paura: perdersi nel nulla.
L’amore non ripara tutti i guasti dei viventi, a volte l’amore non basta, e questo ultimo romanzo di Michela Marzano, “L’amore che mi resta” (Einaudi) si è infilato nel punto assoluto del dolore, è partito da lì, dall’indicibile, da ciò per cui non esiste nemmeno una parola: Giada si è uccisa, ha lasciato un biglietto: “Vi chiedo scusa. Mi dispiace, papà, non ce la faccio proprio ad andare avanti. Di’ a Giacomo che lui sa quello che voglio dire. Di’ a Paolo che in fondo non c’entra niente. Di’ a mamma che lei è perfetta”. Giada si è uccisa a venticinque anni, mentre sua madre in un’altra casa leggeva un libro che la figlia le aveva regalato, cercando di non pensare al fatto che Giada quella sera al telefono era triste. La storia parte da qui, dall’annientamento. Dall’impossibilità di guarire, anche. Non si può guarire da una cosa che è anche impossibile nominare, genitori senza più una figlia. Lei li ha abbandonati, è andata via, non ha pensato al buco che avrebbe lasciato, era arrivata con il compito di salvarli, di essere la loro bambina, invece li ha distrutti. C’è la rabbia mescolata all’amore, c’è la rabbia di essere rimasti vivi, di non essere morti al posto suo. Perché non sei morto tu?, chiede la madre di Giada a suo marito che le sta chiedendo di uscire di casa, di pensare all’altro figlio, di pensare che tra poco è Natale. Lei non riesce nemmeno ad abbottonarsi un cardigan, non capisce che senso abbia infilare un bottone in un’asola, se sua figlia non c’è più. Vorrebbe muoversi ma resta ferma, davanti all’armadio aperto. Vorrebbe il silenzio ma i ricordi gridano. Vorrebbe i ricordi, la storia del Brutto Anatroccolo raccontata la sera, e il silenzio si stende sopra ogni cosa. “Come faccio a vivere se sto morendo?”. Come faccio a passare nell’anno nuovo, se mia figlia è rimasta in quello vecchio? E dov’è finito il golfino di Giada con i pupazzetti colorati, le piaceva tantissimo, magari adesso torna e le serve subito.
Dentro queste pagine si sente forte il grido di una verità anche più che letteraria. Come Joan Didion ne “Le notti azzurre” ha messo a nudo se stessa, così Michela Marzano ha attinto da se stessa per raccontare di Giada e Carla, di questa storia fra una madre e una figlia in cui l’amore non basta, eppure l’amore è tutto. Serve a ripartire, non a guarire. Giada è stata adottata per amore, ma come Quintana ha il terrore di perdersi nel nulla, le manca un pezzo di sé, ha il tormento ineliminabile delle sue origini. Dal momento in cui, bambina, si è seduta su una seggiolina rossa a farsi raccontare la storia della sua venuta al mondo. E quando ha scoperto di essere nata da un’altra pancia, di un’altra madre che poi è dovuta andare via, Giada a cinque anni ha chiesto: “Ma quando sei venuta a prendermi era perché volevi una bambina o perché mi volevi bene?”. “Se il confine tra la forza e la debolezza fosse una linea da tracciare tra lo spazio e il tempo, se la lontananza da quella linea dipendesse dall’intensità del dolore, più vicino alla debolezza, più lontano dalla forza, se quella linea mi attraversasse il cuore, non ci sarebbe più differenza tra il cielo e la terra. Il cuore si è spaccato e non esiste più nessuna barriera tra me e l’abisso. L’intensità del dolore continua a sovrastare la forza. E non c’è pietà sufficiente a dire la pena”. Ecco la definizione del dolore assoluto. Forse è lo stesso dolore che porta a dire basta, a lasciare un biglietto, a dire: mi dispiace non ce la faccio proprio ad andare avanti. Sono due dolori, l’addio e la perdita, che si fronteggiano, come si fronteggiano madre e figlia. Ma dentro questo addio c’è l’origine di ogni essere umano, la lotta non vittoriosa contro il dolore, il bisogno di sapere chi siamo. La madre di Giada voleva essere diversa da sua madre, voleva un’altra infanzia, voleva una figlia a cui dimostrare la perfezione dell’amore, con cui vivere i progetti di infinito che ogni persona fa insieme alle persone che ama. Ma i nostri progetti di infinito a volte sono ciechi, a volte sono infranti. Eppure ci si alza la mattina, e un giorno si ricomincia a sorridere. Con tutto l’amore che resta, che non salva nessuno eppure è tutto.