Trent'anni dopo, una domanda
Io, mio fratello, papà e due suoi clienti. Tutti a caccia del pappapane, con le scarpe in mano.
Per un lunghissimo periodo mio padre ha avuto lo studio legale al piano sotto casa nostra, assieme al nonno e allo zio. Io e mio fratello passavamo i pomeriggi di inizio estate a casa, cioè al piano di sopra, in slip bianchi e basta, a morire dal caldo e a guardare i cartoni animati sulle tv locali, perché la mamma era in ufficio fino alle cinque, quindi per andare al mare, niente, dovevamo aspettare le ferie. Un pomeriggio, è entrato un pappapane con le ali. Era grosso, quelli grossi non sanno volare, fanno dei salti molto scomposti, poi sbattono addosso a un muro o a un mobile o una persona, atterrano male, il loro moto segue traiettorie non euclidee, è imprevedibile. Mio fratello se n’era andato dentro allo sgabuzzino a cercare un’arma, e ne era uscito con quella pistola che spara il silicone. Io, per proteggermi, mi ero messo il casco Nolan che i miei usavano per i viaggi con la motocicletta, poi ne avevo messo in testa un altro anche a mio fratello e da quel momento in poi avevamo comunicato tramite interfono. A un certo punto avevo preso la pantofola di papà, ma avevo sette anni: il pappapane, pure se mi arrampicavo sopra a una sedia, volava troppo in alto per me. Allora io e mio fratello decidiamo di scendere allo studio. Ci apre la segretaria, noi siamo vestiti solo con gli slip, però in più abbiamo due caschi integrali in testa, non sentiamo ragioni, entriamo dentro la stanza di papà, che sta parlando con due clienti molto seri, con l’abito scuro. Mio padre ci guarda, fa: ma che c’è? I clienti non capiscono bene chi siano questi due astronauti, uno di sette anni, l’altro di quattro. Mi tolgo il casco, parlo io: papà, sali, è entrato un pappapane. Mio padre fa: va bene, salgo, però dopo, quando ho finito, adesso salite di nuovo a casa. Mio fratello fa: papà non hai capito, è un pappapane con le ali. I clienti in abito scuro fanno una faccia come per dire: ah, be’, se ha le ali. Mio padre sta pensando a come evitare di salire, gli si legge in faccia, c’è qualche attimo di esitazione sul suo volto, come per dire: facciamo così, rimanete in studio in mutande e casco integrale, anzi traslochiamo, trasferiamoci tutti a vivere qua. Invece finisce che saliamo tutti a casa, io, mio fratello, papà e i due clienti, che si levano una scarpa ciascuno per aiutare nella caccia grossa.
In casa c’è il pappapane che fa le sue picchiate scomposte, mio padre suda, poi si risolve a salire sulla sedia, io e mio fratello gli urliamo: MATALO! UCCIDILO! SCASSALO TUTTO! A un certo punto papà se lo vede sul muro, vicinissimo, ma la pantofola è molla e al momento del colpo lo tradisce, si piega, manca il bersaglio, il pappapane vola e gli si schianta sopra la faccia, urliamo tutti di schifo, soprattutto i due clienti, poi basta, non capiamo più niente, vogliamo vendetta, la nostra furia è cieca, io, mio fratello, mio padre, i due clienti vestiti bene, meniamo tutti dei gran fendenti nell’aria, dove capita. Mia madre rientra in casa con le buste della spesa e vede la sua famiglia più due sconosciuti che si dimenano con delle calzature in mano a percuotere il vuoto. Non sa che fare, poi legge la situazione: si toglie una scarpa anche lei. Il pappapane si sente in trappola, è diventato frenetico, cerca scampo, mio padre lo coglie in pieno con la pantofola ripiegata in due apposta per essere più solida. Il rumore fa ribrezzo. Dal carapace della bestia esce una specie di pasta dentifricia giallastra che, troppo pesante per schizzare, si sedimenta in fretta sulla parete di casa. Io e mio fratello siamo in estasi: lo schifo ci piace, e soprattutto nostro padre è un eroe. I clienti e mia madre si rimettono le scarpe. Mio padre va in bagno, sentiamo conati, poi lo sciacquone. Esce. Lui e i clienti tornano allo studio, io e mio fratello continuiamo a danzare intorno alla sedia usata da mio padre come indiani intorno a un totem dopo aver sconfitto la tribù avversaria, mia madre ci dice solo: finitela, scimuniti, e levatevi quei caschi.
Trentadue anni dopo, nella stanza di un ospedale milanese dove è ricoverato mio padre, entra un pappapane con le ali. Io e mio fratello ci guardiamo negli occhi: e ora? Papà è a letto con una flebo appesa al braccio, io e mio fratello spostiamo gli occhi alternativamente tra mio padre, steso con la flebo, e le sue pantofole ai piedi del letto. Il pappapane va sbattendo sui muri e le tende, il compagno di stanza di mio padre, pure lui con la flebo, senza parlare, indica il pappapane a me e mio fratello come per dire: fate qualcosa, per favore. Mio padre si solleva a mezzobusto e ci fa: ma veramente di nuovo io?
*Mario Fillioley, ha pubblicato “Lotta di classe, diario di un anno da insegnante in prova” (minimum fax)