Édouard Manet, "La lettura", 1865-1873

Nuovo alfabeto

Nadia Terranova

Inventare un vocabolario diverso per raccontare la vita e la malattia, ma senza le parole dei dottori

Se ciò che si chiede a uno scrittore è (anche) inventare una lingua, stravolgere un alfabeto, illuminare di nuova luce parole consuete, allora Zoe è fra le più grandi, una scrittrice che non dovrebbe mancare in nessuna storia della letteratura italiana. Si muove dentro stringhe che tutti conosciamo, nomi cose città animali e colori, e ci regala l’abbecedario della sua vita dalla A di Aereo alla Z di Zoe, passando per la B di Parigi (sì, avete letto bene), per la E di c’Era una volta (sì, anche stavolta avete letto bene), per la W di Wittoria (ancora, qualcosa da contestare?). Zoe è una bambina dislessica, hanno detto i dottori, Zoe è una grande scrittrice, diranno i lettori; Zoe ha un papà miope e pigro coi capelli a spazzola e una pancia enorme, per sorella ha una tivù spenta che chiama Vera, per mamma una signora che ha smesso di vivere senza smettere di respirare, lo scopriamo quasi subito, alla C di Coma, e purtroppo non possiamo sperare che si svegli, l’hanno detto i dottori pure quello. Ma “coma” riassume molte parole e non ne significa nessuna, è una chiazza di vernice bianca su un muro, la nuvoletta di un pensiero muto, un buco nella storia, una storia da riscrivere. Le parole dei dottori non coincidono con le parole della vita e allora bisogna trovarne di nuove oppure riempire di senso quelle vecchie, e la grande scrittrice Zoe riesce a fare entrambe le cose, non importa che sia una bambina e non importa nemmeno che non scriva nel senso materiale o fisico del termine: lei ha dettato tutto a un vecchio registratore, l’ha inviato alla casa editrice Bompiani che ha deciso di pubblicare il materiale inserendo soltanto la punteggiatura, e alla fine era contentissima perché aveva imparato una parola nuova: sbobinare.

 

Questa è la storia immaginaria che ci viene presentata all’inizio di questo libro, “L’alfabeto di Zoe”, che invece è di Fabio Stassi, autore, fra l’altro, di romanzi come “La rivincita di Capablanca” e “Come un respiro interrotto”. Stassi è un letterato con il dono della leggerezza, si trova a suo agio in tutto ciò che è gioco, finzione, racconto di altri racconti, ha un suo gusto per gli elenchi e le liste da ricomporre e reinventare, infatti ha curato per minimum fax “Il libro dei personaggi letterari. Da Lolita a Montalbano, da Gabriella a Harry Potter” e per Sellerio l’edizione italiana del bestseller francese “Curarsi con i libri. Rimedi letterari per ogni malanno”; qui, insieme alle illustrazioni di Eleonora Stassi, riorganizza le lettere dell’alfabeto assumendo la voce di una bambina che è figlia e genitrice dei suoi stessi genitori. Zoe, ingenua e consapevole, racconta sé e gli altri con una profondità possibile solo alle persone libere, libere per davvero, e se sono bollate come malate, o difettose, quelle persone sono ancora più libere: “Mi spiego il mondo a modo mio, d’accordo, ma incredibilmente, e con mia grande sorpresa, a volte mi avvicino alla verità molto più di chi il mondo lo vede solo com’è”.

 

A Zoe piace guardarsi intorno e non si accorge del tempo, la sua distrazione è leggendaria ma lei non è da un’altra parte, è solo più immersa nella realtà di quanto lo siano gli altri. Cade lo spazzolino, si perdono gli occhiali, ma la colpa è dell’ostinata intransigenza degli oggetti inanimati, non certo di Zoe, e se quell’intransigenza noi non la vediamo, la miopia sarà nostra. “Il problema è sempre lo stesso: in tutto scelgo la strada più impensata”, riconosce, ammettendo che i suoi guai nascono da qui; il lettore adulto vorrebbe abbracciarla e risponderle che invece no, dovrebbe essere più clemente con se stessa e pensare che è bravissima a vivere intorno a quella mamma addormentata in un lettino che non si risveglia più, bravissima a inventarsi di nuovo le parole, e le parole per raccontarsi le parole, quando davanti a sé vede solo una sfilza liquida di suoni inafferrabili. Alla M di Maremoto, Zoe racconta cosa le accade quando prova a imparare una poesia, “è come con la pista dei go-kart”, dice, “vedo passare davanti ai miei occhi una quantità impressionante di pesci esotici, tropicali, dalle forme più strane, a palla, con il muso lungo, a martello”. Oppure: “E’ come se qualcuno avesse tolto i freni e io pattinassi sul tetto della mia stanza insieme ad Harvey”. O ancora: “Ma da un po’ ho elaborato una strategia. Appena riconosco i sintomi o mi vedo circondata da parole vuote e inutili, mi siedo per terra e aspetto che si allontanino”. Si può chiamare dislessia, certo, oppure si può inventare un vocabolario diverso e raccontare la vita, dentro cui c’è anche una diagnosi, che è una cosa piccola fra mille gigantesche: dipende da chi sei, un bambino o uno che si è dimenticato l’infanzia, uno che ci tiene alle parole dei dottori o uno che decide di usarne di impensate, uno qualsiasi oppure un grande scrittore.

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