Catherine Bateson e il futuro nelle mani
Crescere in una famiglia illuminata: la figlia di Gregory Bateson e Margaret Mead
Una continua odissea tra le sfere dell’amore e dell’apprendimento”: così Catherine Bateson descrive la sua infanzia. Il padre era Gregory Bateson, filosofo e antropologo britannico trapiantato negli Stati Uniti. La madre Margaret Mead, americana, lei anche antropologa. I due s’erano conosciuti nel corso di una missione “sul campo” in Nuova Guinea; innamoratasi all’istante, lei aveva lasciato il marito (il secondo) per Bateson. Quella della piccola Catherine, nata nel 1939, alle soglie della guerra, è un’infanzia libera, di vasti orizzonti. Padre e madre la portano con loro nei viaggi, le dedicano tempo, ore di giochi e intrattenimenti; sanno trasmetterle come curiosità e fantasia siano le chiavi per aprire qualsiasi porta. Non propriamente viziata, la piccola certo è ascoltata con attenzione. Quando a undici anni esprime il desiderio di vedere l’Australia e i suoi molti animali, subito la famiglia ci si trasferisce per sei mesi (a Margaret Mead è bastato accettare uno degli innumerevoli inviti a fare conferenze). Madre moderna, emancipata e pragmatica, Margaret Mead. Una donna per la quale legami famigliari e maternità sono stati oggetti di studio, ora (così Catherine la descrive nella sua autobiografia/biografia, Con occhi di figlia) “aveva convogliato nel ruolo di genitore buona parte della propria vita dopo la guerra”. Molte fotografie mostrano sguardi di felice intesa tra la madre e quell’unica bambina, arrivata come un miracolo (a Margaret Mead era stata diagnosticata l’infertilità). Più impregnata di valori borghesi rispetto a Bateson, Margaret gode di una solida posizione professionale (accademica). Così, mentre il marito erratico spazia tra campi del sapere e impegni di lavoro di volta in volta diversi (così cerca, e troverà, la sua “ecologia della mente”), la moglie ha successo, si stabilizza. Disparità di status che deteriorano un sodalizio prima splendido quanto a solidarietà, parità, anti-convenzione.
Trovare la propria strada non è semplice per Catherine. Anche perché gli interessi di entrambi i genitori li sente affini, suoi. La sintonia intellettuale con il padre è tale da rasentare l’incesto (“a volte mi chiedo perché non possiamo andare a letto insieme”, insinua lui, tra candidi sorrisi). Però mentre qui i rapporti sono ondivaghi, saltuari, poco rassicuranti, quelli con la madre scorrono chiari, “ordinati”. All’apparenza.
Diciassettenne, Catherine segue Margaret Mead in uno dei tanti viaggi di lavoro – in Israele, questa volta. Lì la ragazza decide di restare. Per il giorno della festa della mamma, invia a Margaret Mead una cartolina con la citazione di William Blake: “Nessun uccello vola troppo alto, se vola con le proprie ali”. Dichiarazione di indipendenza, quanto promessa solenne fatta a se stessa. Nel frattempo ha conosciuto un giovane armeno, con il quale si sposa. Ha intima necessità di un matrimonio “esogamo”, che la tiri via da tutto quel mescolarsi di amore e lavoro, sintonie e vincoli sociali, passioni e interessi troppo convergenti, con effetti soffocanti sull’intimità. E invece in fretta la sua vita prende a esprimere, in filigrana, gli stessi valori respirati in famiglia. Catherine lei pure viaggia e a lungo vive all’estero (tra Filippine e Iran) insieme al marito. Anche lei, come padre e madre, presto privilegia lo sguardo antropologico, il più funzionale per vita e lavoro. Di esercitare la sua professione nel solco di un cammino lavorativo già tracciato dai genitori, è ben consapevole. Alla loro morte, si fa erede perfettamente all’altezza del ruolo; messaggera, esegeta, ma forte di una personalità solo sua. Gli “occhi di figlia” hanno lasciato il posto a uno sguardo adulto.
Per Catherine adolescente, Margaret Mead aveva composto una poesia i cui ultimi versi recitano così: “Puoi dunque partire senza rimpianti / Via da questa terra familiare / Con un bacio lasciato sui miei capelli / E tutto il futuro nelle tue mani”. Libertà regalata, ma quanto per davvero? Il rischio di genitori molto intellettuali, è che i sentimenti siano troppo detti e non abbastanza sentiti. Che molto fluttui nella testa, e troppo poco nelle viscere. La “soggettività disciplinata” (un sempre lucido considerare i propri fatti privati), quello pure tema di Margaret Mead, è tratto di cui la figlia certo ha saputo appropriarsi. Tanto che talvolta l’obiettività con cui Catherine Bateson parla dei genitori impressiona, parrebbe spia di assoluta freddezza. Ma è distacco che a legger meglio si mostra per quel che è: faticoso risultato di una lunga, anche travagliata frequentazione interiore. Come ogni vera emancipazione, passa dall’attraversamento – dalla presa in carico e non dalla fuga. Le conseguenze, come nel caso di Catherine Bateson, possono essere a tal punto limpide da risultare liberatorie: anche per chi gli snodi decisivi di una biografia solo li osservi, ammirato spettatore.