Una famiglia, il film di Riso che racconta lo strappo insopportabile
Una non madre che vende i suoi figli, la morfina di Anna Karenina, il destino da rifare
Anna Karenina è perduta quando perde Sereza, è perduta quando scappa via da suo figlio a testa bassa, il giorno del suo compleanno. E’ andata a trovarlo di nascosto, l’ha ricoperto di baci, lui che credeva fosse morta adesso è felice, esulta, l’abbraccia, ma lei subito deve andare via, non può restare e non potrà tornare. Lui singhiozza e le dice sottovoce: “Non te ne andare”, ma Anna toglie via quelle manine, bacia ancora il viso bagnato e a passi rapidi si avvia verso la porta. Incontra il marito, il padre di Sereza, prova per lui repulsione, e con un movimento rapido abbassa il velo e affretta il passo. “Non aveva fatto neanche in tempo a tirar fuori i giocattoli, e li riportò a casa così com’erano, quei giocattoli che il giorno prima aveva scelto con tanto amore e tristezza”. Da quel momento non c’è più nulla di rimediabile nella vita e nel cuore di Anna. Ha rinunciato a suo figlio, è andata via mentre Sereza le tendeva le braccia, ha accettato, non volendolo, un destino di separazione per sé, e di abbandono per suo figlio. E’ impossibile leggere quelle pagine e non sentire che tutto lo splendore di Anna è precipitato, finito per sempre, e che la sua bontà e la sua intelligenza non sono servite a niente. E’ uno strazio, per lei e per Sereza che singhiozza sul letto, ma a quello strazio si aggiunge ogni volta un senso di ingiustizia, di errore: ho interiormente gridato troppe volte a Anna di tornare indietro, di ribellarsi e cambiare tutto, ho detestato suo marito, ho odiato anche Vronskij ma più di tutto avrei voluto scuotere lei, che da quel giorno, la sera, se la prendeva il pensiero di suo figlio poteva addormentarsi solo con la morfina. Quando ho visto lo sguardo di Maria, Micaela Ramazzotti, in metropolitana con la testa appoggiata sulla spalla dell’uomo che ama, ma all’improvviso catturata da una madre con due bambini, svegliata dal torpore e dalla serenità, scuotere il compagno già deformata dall’emozione, dirgli: “Sono loro”, ho ripensato alla morfina di Anna Karenina, all’irrimediabile infelicità, ho ritrovato quel tipo di dolore che squassa il corpo, il riconoscimento di chi era dentro di te e adesso è lontano da te, non sa nemmeno chi sei. “Non mi ricordo di lei”, dirà Sereza di sua madre, con gli occhi bassi e rosso in faccia. A Mosca nell’Ottocento in meravigliose case con servitù devota e silenziosa e in una Roma astratta e periferica di adesso, dove una donna e il suo uomo vendono figli al mercato nero dei bambini: il dolore non cambia. E’ il film Una famiglia, di Sebastiano Riso, in concorso a Venezia e uscito ieri al cinema. Micaela Ramazzotti non è Anna Karenina, è una persona fragile e senza passato, imprigionata in un rapporto con un uomo che sembra farle da padre, marito, amante, amico, carceriere, torturatore, non ha niente oltre al candore e al proprio corpo, ma ha negli occhi il dolore irrimediabile di chi per bisogno di amore si è lasciato strappare la vita. Anna Karenina si lascia strappare il figlio per amore di un uomo, per obbedienza alle regole della buona società, perché non sapeva immaginare un altro mondo. Maria partorisce bambini di cui non sarà mai madre, le vengono tolti appena nascono, venduti per qualche migliaio di euro, e subito il suo compagno cerca un’altra coppia e la porta al ristorante con un abito scollato, per dimostrare ai compratori che la guardano di nascosto quanto siano buoni i geni della giovane donna italiana: il bambino sarà bello, potrebbe nascere perfino biondo. Maria ubbidisce per paura di restare sola, ma ha così poco o niente da perdere che già dalla prima scena del film, in cui riconosce un suo figlio in metropolitana, le cova dentro una rabbia che diventa una specie di ribellione. Maria non ha letto nessun libro, non sa niente, non ha nessuno, ma quello che sente è più forte di tutto quello che le manca: sente che quei figli sono suoi, anche se non è mai stata davvero madre, anche se l’unico bambino suo che ha visto da vicino l’ha visto da morto. Maria passa le giornate aggrappata al suo golfino rosa, quindi a se stessa, in un appartamento o in un altro, in nessun vero luogo. Vedere questo film fa l’effetto straziante e a volte insostenibile delle pagine in cui Anna Karenina si separa da suo figlio: è tutto completamente diverso, è un altro mondo, ma l’insopportabilità del dolore è la stessa e il regista sa raccontarla attraverso il corpo sofferente di Maria, attraverso la sua ribellione discontinua ma profonda a un destino terrificante. Maria ha venduto i suoi figli, e questo film è stato ispirato da storie vere, da inchieste italiane, da un mercato nero di bambini che esiste, ma è una storia intima. Maria ha venduto i suoi figli ai desideri degli altri, ogni volta il suo corpo si è svuotato e ha affrontato di nuovo l’assenza, il nulla. Questa volta è diverso. Lei è stremata ma è più forte. Maria non è più Anna Karenina che scappa dalla stanza dove Sereza si è appena svegliato e la chiama piangendo. Maria un pomeriggio a Ostia ha creduto di incontrare l’uomo che l’avrebbe salvata, che l’ha guardata con occhi buoni, l’uomo con cui vorrebbe avere, non vendere, un figlio. Ma quella vita, da lì in poi, è stata il contrario della bontà. Non sappiamo quanti figli abbia perduto Maria, ma basta contarli nel dolore degli occhi. Questa volta è ancora terribile ma è diverso. La pena non finisce, ma il destino si cambia.