Una durissima adolescenza fricchettona
Com'è, a quindici anni, andare al mare con mamma e papà nudi, nonna tette al vento a Malibù
L’adolescenza, che spaesamento: ne abbiamo sofferto tutti, per minimi spostamenti, dalla cittadina alla campagna, dal nord al sud, dalle elementari alle medie; da un civico all’altro. Drammi bestiali dunque per lo spaesamento transatlantico dai Parioli a Los Angeles. Il romanzo di Chiara Barzini, Terremoto (Mondadori), è la storia di una famiglia fricchettona che dall’Italia si sposta in California alla ricerca del sogno americano negli anni Novanta (con nonna al seguito). Molto autobiografico, ovviamente, Barzini discende dai Barzini giornalisti, il padre è Andrea, regista, le zie sono la modella riluttante Benedetta e la giornalista non riluttante Ludina. Il nonno era Luigi, quello di Italians, quello che ha spiegato gli italiani al mondo, il bisnonno quello della Parigi-Pechino. Esaurito il pur impegnativo albero genealogico, ecco il romanzo, con l’America, l’America che sta “cinquecento puntate di Beautiful avanti all’Italia”, Hollywood, tuo padre, più adolescente di te, che si aggira per la città in cerca di ingaggi cinematografari, tipo Californication, all’ombra dell’amico Max, produttore cubano la cui caratteristica principale è d’essere amico di Phil Collins (ha scritto i testi per il tormentone Another day in paradise). L’America è la spiaggia di Malibù, che a chi non c’è stato ispira esotiche fantasie schiumose, ma nel romanzo è il set della scena iniziale, quella di uno spaesamento balneare in cui tutta la famigliola romana in cerca di libertà si mette nuda (compresa la nonna) a prendere il sole e viene immediatamente ripresa dai poliziotti con gli elicotteri che dall’alto (succede davvero) sorvolano la spiaggia, e li fanno ricoprire e rimproverano in particolare la “sexy nonnina” (vergognarsi dei parenti è un altro momento fondamentale dell’adolescenza).
Ma l’America è soprattutto una high school dove la povera adolescente Eugenia finisce subito lost in translation. Ci sono i consueti metal detector, ci sono le gang, c’è la lezione di educazione sessuale e la principale preoccupazione è non rimanere incinte. I compagni ritengono che Eugenia sia “siciliana”, ritenendo la Sicilia uno stato sovrano; la professoressa Anders, tette finte e volto umano della high school, non sa bene dove collocare Roma sulla cartina (Roma in Georgia?); poi la prende a benvolere considerandola rifugiata politica e applicando lo ius soli, perché nel frattempo Eugenia si è lamentata dei professori italiani “fascisti”. E l’America si sa è letterale, le sfumature non molto diffuse. Dunque se i professori son fascisti la professoressa ritiene che vi sia ancora Mussolini, da cui lo status di rifugiata. La professoressa Anders a inizio anno chiede anche agli allievi di darsi un obiettivo, un “goal di autostima” per i mesi successivi (ne avremmo bisogno tutti, non solo al liceo): e la povera Eugenia scrive subito “tornare a Roma il più presto possibile”.
Lo straniamento Roma-L.A. è naturalmente uno dei punti forti del romanzo, e intanto riflessioni: mentre stanno per cominciare le celebrazioni del Sessantotto, ecco confronti pesanti; proprio in California, tante mostre già quest’anno sull’Hippie Modernism e le invenzioni capellone, che hanno portato il computer, immaginato l’internet, brevettato il cibo biologico, mentre da noi hanno prodotto soprattutto okkupazioni e disokkupazione giovanile di lungo periodo, come raccontano le cronache di questi giorni coi party al romano liceo fighetto Virgilio, altra scuola aspirazionale ma nel Centro storico rinascimentale. Barzini andava invece al Tasso, altro fondamentale liceo romano a via Sicilia, sopra via Veneto, scuola temutissima e araldica, già frequentata da Moravia, famosa per i voti inversamente proporzionali ai redditi. La vita al Tasso era difficilissima negli anni Novanta. Occupazioni e professori temibili. “Stavamo accampati nei sacchi a pelo nella palestra gelida, fumavamo marijuana, parlavamo del sistema”, scrive Barzini nel romanzo, mentre nella realtà l’autrice venne bocciata in quarta ginnasio; e poi con fantastica nemesi californiana al liceo di Los Angeles improvvisamente i professori non stanno a guardare i voti precedenti, “avevo quindici anni e quindi sono andata in seconda, punto”, mi dice. Anche questa è libertà americana, anche questo è il sogno californiano in cui il passato non conta e si può sempre ricominciare. Al liceo sgangherato e con i metal detector ma non okkupato (“una cosa in America inconcepibile”), Eugenia cerca il suo posto nel mondo e la sua difficile collocazione tra mean girls che la chiamano “latina” e come in ogni liceo ti giudicano per le scarpe che porti, e tu sei troppo fragile per difenderti. Però a un certo punto, magicamente, l’obiettivo di autostima di Eugenia non è più tornare a Roma il prima possibile, ma “ricominciare da capo in America”.