"Summer soccer" di Franck Michel, via Flickr

Tempo di imparare

Maurizia Rebola*

Storia di Riccardo, che ha quindici anni e ha insegnato a sua madre a buttare via la paura

Hai trent’anni, la sensazione di avere ancora molto da vivere, grande gioia che anima le tue giornate e la serenità di notti accoglienti. Hai studiato, ti sei guadagnata un bel posto di lavoro che ti gratifica. Hai anche un grande amore da cui nasce il sogno di un figlio che non riesci quasi nemmeno a desiderare perché dopo un solo mese scopri che lui è già dentro di te e in qualche modo lo sarà per sempre.

  

Al sesto mese di gravidanza fai una banale ecografia di controllo e capisci che la tua vita sarà speciale. Non metti in discussione il battito che porti in grembo perché senti che il tuo posto nel mondo passa necessariamente attraverso questa esperienza. Oggi Riccardo ha quindici anni, non parla, non cammina, ha un sorriso contagioso e una grande famiglia che lo ama.

  

Mettere al mondo un bimbo disabile significa molte cose. Le emozioni che ti travolgono quando scopri che sei stata scelta per questa missione sono tante e molto distanti tra loro. Sono emozioni che cambiano nel tempo, che si avvicendano, si susseguono e poi ritornano.

  

C’è la gioia di diventare madre, associata alla curiosità di capire che musetto avrà tuo figlio. L’eccitazione per un pezzo di vita che ancora non conosci. Ma c’è anche la paura per quel pezzo di vita che ancora non conosci e che per magia si palesa come più spaventoso del previsto.

  

C’è il dolore. Dolore profondo e inconfessabile per aver fallito come generatrice, per aver procreato un frutto imperfetto.

   

C’è la speranza che i medici si siano sbagliati e che improvvisamente lui un giorno inizierà a gattonare come fanno tutti i bimbi. Speri che la scienza si dimostri inesatta e che quindi al suono “mamma” un giorno potrai girarti e dirgli “dimmi, cucciolo”. Vi improvvisate entrambi acrobati nel tentativo di riuscire a far sì che lui stia accovacciato sul vasino, ma lui non starà mai seduto senza un ausilio per il sostegno della colonna vertebrale e porterà per sempre il pannolino. Piangi quando capisci che non potrai mai portarlo sul seggiolino della bicicletta. Ti disperi perché non verrà mai con te sulle tue amate montagne.

  

Passano i mesi. Capisci che è ora di cambiare marcia, che il tempo dell’accettazione è arrivato. Che non serve rassegnazione, ma amore. Per tuo figlio, per la vita, per la grande occasione che ti si è presentata.

  

Sì, perché Riccardo è la mia miglior opportunità di crescita. Non c’è giorno in cui io non impari qualcosa da lui. La pazienza, la disponibilità verso l’altro, la serenità d’animo, il lasciare andare ciò che non serve. Lui è il mio piccolo grande Maestro. Altro che dolore profondo e inconfessabile per aver procreato un figlio imperfetto.

  

Abbiamo la fortuna di vivere in una famiglia dove Riccardo non ha mai dovuto fare i conti con le parole rifiuto, vergogna, fastidio. Lui ha una enorme capacità di catalizzare e diffondere amore. Se fosse un fumetto avrebbe disegnata attorno al suo corpo una meravigliosa aura luminosa. E’ come se tutti godessero di quest’aura restituendogli tanto calore. Genitori, nonni, tata, fratelli e sorelle, zii e cugini, compagni di scuola, amici, tutti uniti a raggiera verso di lui. Non riuscirò mai a restituire a parole la seduzione di cui lui è inconsapevolmente capace.

  

Spesso le persone che mi incontrano per la prima volta e che conoscono la mia storia di maternità rimangono colpite dal mio aspetto curato e orgoglioso. E’ come se si aspettassero che la mamma di un ragazzino disabile dovesse essere irrimediabilmente dimessa e triste. Mal sopporto i pietismi. Accolgo di buon grado la compassione.

   

Credo che ogni esperienza di genitorialità sia unica. Non credo all’amore che nasce esclusivamente per trasmissione dei caratteri ereditari, ma da quello che sboccia dal prendersi cura gli uni degli altri.

  

Ho partorito con taglio cesareo. Dopo ore e ore di travaglio e otto centimetri di dilatazione mi hanno operata d’urgenza con anestesia totale. Quando mi sono svegliata e mi hanno messo in braccio mio figlio ho capito che avremmo ricominciato da lì. Oggi amo Riccardo come mai avrei potuto immaginare sarebbe successo. E non certo perché fosse e sia disabile. Non credo i figli ci appartengano, credo invece siano creature libere che possono piacerci più o meno al di là del senso di protezione che istintivamente proviamo. A me Riccardo è molto simpatico. E’ un amico, un compagno di giochi, un grande ascoltatore capace di spazzare via qualsiasi malinconia in un battito di ciglia. La mattina quando mi sveglio e lo raggiungo nella sua cameretta, vedere la sua testolina che fa faticosamente capolino al di sopra delle sponde del letto mi fa esplodere il cuore di gioia e ringrazio il Signore per avermi fatto un regalo tanto prezioso.

  

La fatica è tanta, la preoccupazione per il suo stato di salute a volte mi butta in uno stato di sconforto nero e profondo. Non è facile, ma è comunque meraviglioso. Scelgo la speranza e butto via la paura. Sempre.

    

*direttore del circolo dei Lettori di Torino

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