Massa, potere e merendine. Il dovere di pensare a tutte le vittime
La lettera di Claudia Zanella, la rivoluzione e quegli scemi per le scale, “che sono tanti”
Ogni volta che vado a prendere mia figlia a scuola spero, durante gli ultimi venti metri che mi separano dal portone, che nessuna madre mi dica: che è successo, sta per nevicare? Ogni volta che vado a prendere mia figlia a scuola, nei venti secondi in cui le passo il casco e le prendo lo zaino, c’è una madre che mi dice: che è successo, sta per nevicare? Ogni volta io sorrido, sconfitta, e dentro il mio sorriso immagino di passarle sopra un piede con il motorino. E’ un attimo, passa subito perché mia figlia ha seicento miliardi di cose da raccontarmi e da chiedermi, ha fame, si emoziona se incontriamo un suo compagno al semaforo, si sbraccia per salutarlo, mi recita il discorso da rappresentante di classe che si è preparata mentalmente durante l’ora di musica: “I compiti a casa sono importanti ma non devono rubare tutto lo spazio alla vita”. Giusto, e poi? “Poi le mie compagne hanno detto che dobbiamo parlare delle molestie dei maschi e denunciarle, ma io ho detto che quando Tommaso ha cantato Astro del ciel durante Geografia ridevamo tutti”. Che cos’è questa storia delle molestie?, ho chiesto spaventata. Mia figlia ieri era entusiasta: “Una mia compagna ha detto che stiamo facendo la rivoluzione mamma! Contro i maschi prepotenti e maniaci vinceremo noi”.
Va bene, adesso calmati, compriamo la pizza. Le ho chiesto se conoscesse qualche maschio prepotente e maniaco, ha detto che il più prepotente e maniaco è suo fratello quando gioca con l’iPad. Vuoi fare la rivoluzione contro di lui, che ti ha regalato un libro sui lupi al mercatino della scuola barattandolo con le sue figurine dei calciatori? “No, però i maschi a volte non capiscono niente”. E’ vero, ma anche le femmine, dico pensando a quella madre che ogni volta mi chiede se nevica, e che se non si scansa presto ci rimetterà un piede. Spesso non capiamo niente, diciamo le cose sbagliate, ci accodiamo a pensieri non pensati, che non sono i nostri. “Che devo dirvi, le visioni sono spaventose – scriveva Cechov in Paura – ma anche la vita è spaventosa. Io, mio caro, non capisco la vita e ne ho paura. Non capisco la gente e la temo”.
Io vorrei che mia figlia non avesse mai paura di niente, e non temesse nessuno, come adesso mentre mangia una fetta di pizza e non smette di parlare nemmeno masticando, vorrei che andasse incontro alle persone tutta intera, non ingenua ma intera. Ho letto però la lettera di Claudia Zanella, la moglie di Fausto Brizzi, che ha espresso al Corriere della Sera il suo sgomento e ha raccontato l’ultima delle violenze subite in queste settimane terribili: lei e sua figlia, che ha un anno e mezzo, non possono nemmeno uscire di casa, perché giù al portone c’è una piccola folla che non aspetta altro che chiederle: che cosa prova? aveva idea che suo marito fosse un molestatore, un maniaco? In questo caso sì: non capisco la gente e ne ho paura.
Nel caso della trasmissione delle Iene di domenica scorsa, con cui si è scelto di condannare un uomo in televisione e di incitare alla condanna di altri uomini attraverso uno spettacolo che è diventato tribunale con potere di vita e di morte, settimana dopo settimana sempre più feroce e trionfante, non capisco la gente e ne ho paura. Se nessuno ha davvero pensato alle vittime di questa storia, proprio mentre divideva il mondo in carnefici e vittime e considerava ogni sentimento di disagio come una prova di complicità con un possibile molestatore, allora questa non è una rivoluzione che voglio fare. Ho una figlia che si affaccia all’adolescenza, sono emotivamente e razionalmente furiosa per quello che queste ragazze raccontano di avere subìto, in nome delle speranze e della fiducia verso la possibilità di essere le prescelte, le più brave, anche le più belle, le più adatte al film e le più meritevoli di successo. E’ per questo che si vive e si lotta: per essere quella persona, per essere l’unica. Non era loro compito pensare a non distruggere la vita dell’uomo che le ha molestate. Hanno già dovuto superare altri tormenti, paure, il fastidio di raccontare cose troppo intime che sono diventate uno spettacolo televisivo. Ma tutti gli altri hanno il dovere di pensare, di fare distinzioni, di farsi carico delle conseguenze. Sennò diventiamo una massa violenta e cieca, insaziabile, pronta ad accodarsi a pensieri nemmeno pensati, a usare la parola “stupratore” per chiunque, a cancellare il nome di un regista dal suo film pensando che così si cancella il male e si offre al mondo una coscienza immacolata.
Non è così, ma come potrei spiegarlo a mia figlia mentre mangia la pizza piena di fiducia nella rivoluzione contro i maschi prepotenti? Aveva fatto un patto con il compagno più alto della classe: lui all’uscita da scuola le porta lo zaino per tre piani di scale, lei a ricreazione gli dà un pezzo di merenda. Io ogni mattina metto nello zaino una merendina in più. Ma un gruppetto di tredicenni di un’altra classe ha urlato, incontrandoli per le scale, che quello è bullismo, e che forse mia figlia a Niccolò “gli dà qualcos’altro”, e lei si è disperata e ha deciso che porterà lo zaino, che è grande due volte lei, sempre da sola. Sono scemi le ho detto, perché li ascolti? Perché sono tanti, ha risposto. Sono tanti e non pensano a niente, ma hanno tredici anni: a noi, che siamo tanti, è richiesto un pensiero un po’ più articolato, sugli esseri umani, sulla giustizia, sulla ferocia, sulle conseguenze delle parole. Però Niccolò, mi ha raccontato mia figlia, le si è inginocchiato davanti e le ha detto: ti prego fammi portare questo zaino, ne va del mio onore di più alto della classe! E tu? Gli ho detto: ridillo davanti a tutti. E lui l’ha ridetto. Niccolò, domani, avrà due merendine, la rivoluzione sta arrivando.