Mio figlio vola
Simonetta Agnello Hornby e la malattia di George: il tremore alle mani e un unico destino
"E’ stato bravo lui, con la sua malattia. Io pure, ma poco". Simonetta Agnello Hornby si siede puntualissima al tavolino del bar. Quattro giri di perle, capelli grigi tagliati corti, un piglio sicuro e garbato: palermitana di nascita e inglese per la vita, con la sua carriera d’avvocato prima e di scrittrice poi, ha l’aria di una signora da romanzo. Quindici anni e quindici libri dopo La Mennulara, il suo esordio del 2002, divide penna e pagine con George Hornby, il figlio il cui destino è legato – beffa, questa, di un’altra sceneggiatura – a quello letterario della madre. Nessuno può volare è uscito per Feltrinelli quest’inverno, e segue una serie televisiva realizzata per la Rai, Io & George, oltre a un documentario per La Effe. Tra le pagine, e sullo schermo, il cammino di Simonetta, George, e l’ospite inatteso: la sclerosi di George.
La diagnosi di George è arrivata insieme a La Mennulara: lui era appena diventato padre e si accorse del tremore alle mani nel momento in cui la figlia Elena, neonata, sembrò sfuggire alla sua presa. E allora le corse, i medici, la lucidità che si appanna, e una scure. “Il 3 marzo 2002 ricevetti una telefonata dalla Feltrinelli. ‘C’è talento nel suo manoscritto, talento...’. Subito pensai a Giorgio: e se l’indomani mi avessero detto: ‘C’è un male incurabile in suo figlio, incurabile...’? Quando cedevo alla vanità, subito mi calava addosso un’ombra. Non lo volevo il talento. Volevo un figlio sano, e basta”.
Diagnosi e consacrazione sono arrivate insieme. Anni dopo, insieme le raccontate: è un modo, questo, per cercare un riscatto?
No. Il riscatto si paga quando si è sequestrati, o quando si fa qualcosa di brutto e ci si redime. Io mi sono trovata con un figlio che era un ragazzo di grande successo, ammalato, con una malattia terribile, ma anche molto coraggioso: Giorgio aveva una moglie e due figli piccoli, e così reggeva. Poi la moglie lo ha lasciato, e si è trovato nel dramma del divorzio. Non ho mai biasimato mia nuora, perché non ce l’ha fatta: la gente non sempre è fatta per reggere bene i drammi della vita. E Rebecca, che lavorava, e che aveva voluto fare un altro figlio dopo la diagnosi, per cui ci credeva in quel matrimonio, non ha retto. Solo per l’acrimonia sui danari non sono contenta, non per la scelta. I bambini stavano con lui metà del tempo, ma lui era un uomo distrutto, non sapeva che fare: aveva lasciato il lavoro alla City ed era solo. Comprai una casa accanto alla sua, e cercai di occuparlo: gli ho mostrato che sui mezzi pubblici ci sono le pedane per i disabili, che poteva muoversi. Poi Giunti mi ha chiesto un libro su Londra, e io l’ho fatto con lui. Dopo, il programma televisivo, ora un altro libro: sa scrivere, ha humour – da suo padre – e così sa che può ancora essere utile, produrre ricchezza. Ha ripreso fiducia. Con la serie abbiamo girato città d’arte raccontandone l’accessibilità.
Con qualche problema a Palermo, a Palazzo dei Normanni mancano gli ascensori.
Ma il personale si industriò. Peggio fu quel che accadde dopo, in un ristorante che ci avevano detto essere accessibile ai disabili. Non fosse che tra la sala e il bagno c’erano tre gradini. Chiesi dove fosse la rampa, la proprietaria del locale mi guardò e rispose: E cheffà, tre scalini non li può fare? Bello. Il problema, per lei, era Giorgio, non lei che aveva mentito. Peggio ancora del senso pietistico di chi guarda il disabile dall’alto: lei lo guardò da padrona. Era lui che non doveva stare lì. Una donna senza sentimenti: provai odio.
Lei ha detto che si rifiuta di affermare, come fanno alcuni, che avere un figlio ammalato sia una fortuna.
Penso che le malattie di noi esseri umani siano delle sfide, non cose da auspicarsi. Giorgio non ritorna come prima. La vita però è piena di difficoltà, e le sfortune possono essere tante, a tutte ci si può adattare. La malattia è un inizio di disfacimento, di un dolore costante. Però oggi, con gli aiuti che può portare la tecnologia, nella sfortuna Giorgio è più fortunato di quanto sarebbe stato il secolo scorso.
Come fa una madre a prendere un figlio per mano e mostrargli che un’altra vita è possibile? Non tutte riescono.
Non sono così sicura: ho visto tante mamme che lo hanno fatto, e tante che non ce l’hanno fatta. Quando capita una cosa così a tuo figlio o ti disperi o impazzisci, o lo abbandoni. Certo, tutto succede. Ma continua a esistere la madre. Io ho inserito Giorgio nel mio lavoro: non è vero che può fare tutto quello che possiamo fare noi, ma in qualunque lavoro c’è qualcosa che un disabile può fare. Il problema è pensare. Vedere tutto e capire che cosa si può. Nessun uomo può volare, e Giorgio non può più camminare: ma si può fare di più, si può fare altro. Dovevamo solo trovarlo, il di più.