Teresa sta arrivando. Sto pensando a lei dentro questa insonnia? No
Nascerà presto, prestissimo. Non ho più tempo, cambierà tutto, arriverà lei e io non sarò più io
L’hai sentita? – Certo, amore.
La mano poggiata sulla pancia di mia moglie, sono le sei di mattina. Sono sveglio da circa un’ora rigirandomi e guardando in alto, di lato, tenendo chiusi gli occhi perché almeno gli insonni non debbano riconoscermi come uno di loro, per strada.
Mia moglie si è svegliata perché le ho dato fastidio. In uno dei miei movimenti irrequieti spesso la abbraccio, le sfioro il naso, la nuca, il seno. Le carezzo il culo. Rimango con la mano sulla pancia. Così lei è costretta a svegliarsi, per pochi secondi. Ricambia qualche carezza, mi chiede se sto bene, io la rassicuro, magari mi giro dall’altra parte e lei mi abbraccia da dietro. Danziamo così per molti minuti, io mi pento di averla svegliata, così mi giro ancora, perché so che lei sul fianco destro non riesce a rimanere per molto tempo ed è obbligata a mettersi a pancia in su. O sul fianco sinistro, meglio, in modo da lasciarmi di nuovo da solo.
– La senti? – Sì. Ora l’ho sentita.
La mia mano nella sua. Siamo in ascolto di Teresa. Nel buio della stanza da letto so che mia moglie sta sorridendo, e sono felice. Le lascio la mano, e lei come previsto rotola sul lato sinistro, il suo preferito. Mi alzo, finalmente. Fuori purtroppo è ancora buio, non c’è la mia tanto agognata alba. Ma sta arrivando, ne posso intravedere in fondo all’orizzonte le prime armate, e sono meno angosciato.
Sto pensando a Teresa, mia figlia, che ho appena sentito agitarsi nel grembo materno? No.
Mi preparo una rapida colazione, il cervello è in moto già da più di un’ora. Non sono convinto che quella frase con cui ho chiuso la pagina ieri sia stata buona cosa. Riparto da lì, devo ripartire da quel dubbio per darmi la spinta a dedicarmi alle prossime pagine. Non esiste essere più noioso, infingardo, autoriferito, fragile, falso, di uno scrittore alle prese con un romanzo nuovo.
– Stai scrivendo? – Poco, controvoglia.
Le poche confidenze che si scambiano con i pochi amici scrittori sono anch’esse appendici di un lavoro sulla scrittura che non ammette la normale passeggiata degli uomini semplici. Sono palleggi di riscaldamento a tennis, anzi somigliano più allo stanco passarsi la palla sulla spiaggia, dove non esiste agonismo, ma bisogna far passare il tempo guardandosi l’abbronzatura.
– Stai scrivendo?
– Oggi, ventimila battute.
– Accidenti!
Sei invidioso, eh? Ma non ti chiederò tu quante ne stai scrivendo. Non me ne frega. Vado avanti per la mia strada. Cosa dici? Il titolo? Oh, sì, ho qualche idea, ma non è ancora arrivato quello giusto. Tu ce l’hai? Fammi un po’ sentire. Bellissimo, complimenti. Molto potente. Guardo su internet se ci siano altri libri precedenti con quel titolo. Non ci sono. Fanculo.
Teresa nascerà presto, prestissimo. Non ho più tempo, cambierà tutto, arriverà lei e io non sarò più io. Dieci minuti al giorno prendo questi pensieri e li appallottolo così tanto forte che divengono un dardo dal peso specifico altissimo dentro le mie mani. Sono il più delle volte nel mio studio, in piedi, sto fumando con la porta chiusa e il balcone aperto. Entra freddo, ma è l’unica opzione possibile per poter fumare in casa. Il mio studio è diventato l’ultimo avamposto del mio individualismo. Mi sono comprato un omino del Subbuteo alto cinquanta centimetri a centotrenta euro. Un’inutile costosa meraviglia. Poche ore prima avevo fatto una scenata a mia moglie su quanto lei sia spendacciona, che a dicembre avevamo esagerato, che dobbiamo pensare ad essere genitori migliori, più equilibrati. Che quelle nuove scarpe avrebbe potuto comprarle con i saldi.
– Sai quanti pannolini ci compri con quei soldi?
Il mio omino gigante del Subbuteo mi guarda. Prima l’avevo posizionato sulla scrivania, come i nostalgici posano il busto del loro santo. Poi ho avuto paura che una delle gatte lo facesse cadere, non potevo subire l’angheria di vedermelo rompere davanti agli occhi. Almeno un mese deve durare. Soltanto nell’ultima settimana quelle due bestie mi hanno mangiato tre paia di cuffie. Soldi buttati. Ma ho ricomprato le cuffie. Perché da quando mia moglie è a casa dal lavoro i suoi passi sono rumorosi, la musica che ascolta è a un volume troppo alto. Mi chiama dalle stanze. Laddove c’era silenzio, le passeggiate tra il corridoio e la sala e poi lo studio e poi il balcone della cucina, poi ancora indietro, ora c’è una casa affollata. Io, mia moglie, le gatte, i vicini cafoni. Ma come si fa a scrivere un romanzo, in queste condizioni! Perché quella è la cosa più importante. Le cuffie mi consentono l’isolamento. Ho ancora poco tempo per potermi isolare.
– La senti? – Eccome.
Teresa sta arrivando, abbiamo comprato un tappeto gigantesco che adesso sta proprio davanti al divano. Al momento è un ring di boxe in cui le nostre due gatte si battono per il possesso di quel quadrato esclusivo. Mi piace molto, mi immagino lì in terra a giocarci a giochi intelligenti e a ridere con mia figlia. Ma non adesso.