La neve e il buio a Rigopiano. "Noi siamo quelli che non sono morti"

Annalena Benini

Ludovica che a 6 anni ha pensato: mi hanno abbandonato, sua madre a due metri da lei

Per tutto il tempo io ho pensato alla madre. Un anno fa, quando una valanga si è abbattuta sull’hotel Rigopiano, in Abruzzo, neve, ghiaccio, pietre, e le persone intrappolate al buio, al gelo, i bambini là sotto, e tutti noi incollati alla tivù, alla radio, ai siti dei giornali. Ho pensato alla madre, Adriana, che pochi minuti prima aveva chiesto a suo marito di andare a prendere delle medicine in auto, e pochi minuti dopo l’hotel non esisteva più. Il marito ha dato l’allarme, e dopo cinquanta ore i vigili del fuoco hanno tirato fuori la sua famiglia: Gianfilippo, otto anni, Adriana, e alcune ore dopo anche Ludovica, sei anni, che con altri due bambini era nella stanza del biliardo, e per due giorni e due notti ha pianto, raccontato favole, chiamato aiuto rannicchiata insieme a loro su un divano nero. “Noi siamo quelli che non sono morti”, hanno scritto in questo libro uscito per Mondadori, “Il peso della neve: Storia della nostra famiglia sotto la valanga di Rigopiano”. Ventinove persone su quaranta sono state uccise da quelle centoventimila tonnellate, e essere vivi è un enorme nodo alla gola, respirare è più difficile.

 

Per tutto il tempo io mi sono concentrata su di lei, Adriana: chissà come ha fatto, che cosa ha detto ai suoi bambini mentre erano là sotto, come è riuscita a tenerli vivi, a restare viva, e come ha fatto dopo, com’è diventata la vita per lei, che cos’è la felicità adesso, che cosa pensa quando guarda i suoi figli, quando li mette a letto, quando vede la neve cadere. Chissà se si è addormentata, là sotto, se ha pensato che stava morendo. Avevo letto che era un’infermiera, quindi sapeva molte cose: che cosa avrei saputo fare, invece, io? Adriana Parete ha scritto che loro quattro sono tornati in fretta alla vita, con una specie di quiete, hanno parlato poco di quel che era successo, e i bambini mangiavano, dormivano, giocavano, ma Ludovica non era più la ragazzina super allegra che ballava e cantava: girava per casa come un fantasmino, si fermava e fissava i suoi genitori, non li abbracciava più, e una sera l’ha detto: “Ho pensato che forse mi volevate abbandonare”. Abbandonarla là sotto, fra le macerie di un albergo, al buio, al gelo. Sua madre, che per cinquanta ore non è morta perché doveva salvare lei e suo fratello, è crollata. “Ludovica, ma che dici?”.

 

Ludovica non ha passato quelle ore spaventose abbracciata a sua madre, non è mai stata rincuorata da lei. Ludovica era da sola, con due bambini della sua età, di sua madre non ha mai sentito nemmeno la voce che ogni tanto urlava il suo nome, solo ogni tanto perché non voleva spaventare il fratello. Adriana al figlio diceva, tutti e due incastrati sotto una trave spezzata: vedrai che Ludovica è già uscita, sta bene, ci sta cercando con il papà. Ma aveva in mente la sua bambina a tre metri da lei, nella sala da biliardo con gli altri, nell’istante in cui arrivava quel vento che entrava nella bocca e nel naso e impediva di respirare, in piedi con la stecca in mano: Ludovica la guardava terrorizzata, ferma, immobile. E poi c’è stato quel fracasso ed è diventato tutto buio. “Perché mi hai urlato di stare ferma, di non venire da te, mamma?”, “No Ludovica, non l’ho mai fatto”, “Sì, mamma. L’hai fatto”. Ludovica ci ha messo mesi per capire che cos’è successo a Rigopiano, lei che adorava Elsa, la regina delle nevi, e voleva tantissimo andare in montagna, ed era così piccola che non riusciva a slacciarsi da sola la tuta da neve: in quei due giorni ha fatto la pipì addosso, ha vomitato per la fame, è rimasta in vita senza sua madre, è diventata grande. “Io non sapevo nulla di lei, se era viva o morta o ferita. E non potevo fare nulla”, scrive nel memoir Adriana, che supplicava suo figlio di non dormire ma non riusciva più a respirare e sentiva gli occhi che si chiudevano. “Gianfilippo, io farò di tutto per non addormentarmi, ma non so se ci riesco. Quindi forse, tra poco, mamma si addormenterà. Tu devi resistere e non devi dormire. Per nessun motivo. E se senti qualcuno che arriva, se senti qualche rumore, qualunque cosa, comincia a gridare come un matto. E ricordati che mamma ti vuole tanto bene”. Era certa di stare morendo, e impazziva al pensiero di lasciare suo figlio in braccio a una madre morta. Invece aveva fatto poche ore prima una puntura di antibiotico, per la febbre, e quell’antibiotico stava facendo effetto. Questa è la spiegazione razionale, ma ovviamente non può bastare. Adriana vedeva una luce rettangolare, dentro quel buio nero, e le hanno detto in ospedale che non era possibile, laggiù non entrava nessuna luce. “Mamma, perché non vengono a prenderci?”, le chiedeva suo figlio, affamato, assetato, con la tosse per l’asma. “E Ludovica?”. “Starà certamente bene, Gianfilippo… Ne sono sicura”. E’ vero che si trova la forza anche quando non c’è più forza, è vero anche che una madre lo sa. Ludovica era viva, sua madre lo sapeva. E quando hanno tirato fuori Gianfilippo, otto anni, che continuava a ripetere tra sé e sé: “Sono forte sono forte sono forte”, lei ha mentito ai vigili del fuoco che le chiedevano quando era stata l’ultima volta che aveva sentito sua figlia. “Fino a poco fa, le ho parlato fino a poco fa. E stava bene. Stava nella sala del biliardo, a due passi da me…Vi prego, sbrigatevi”. Non era vero, non aveva mai parlato con Ludovica, ma forse invece sì. “Ancora oggi non sono affatto sicura di non averla sentita, Ludovica, lì sotto. Ancora oggi, ogni tanto, di notte, ho l’impressione di sentire quel pianto sottile, distorto dalle pareti spezzate, soffocato dalle macerie e confuso con l’altro pianto, quello più forte, dell’altro bambino”. All’inizio era certa che non fosse sua figlia, adesso pensa che se avesse sentito Ludovica piangere e implorare di andare a salvarla, senza potersi muovere, con il bambino che batteva i denti per il freddo, sarebbe impazzita. E non poteva permettersi di impazzire. Quando si sono ritrovati tutti e quattro in ospedale, quando Ludovica è entrata in barella, arrabbiatissima sotto la termocoperta, il fratello le ha detto: Ludo dammi la mano. Lei gliela ha data, e Gianfilippo è finalmente crollato, di schianto, ha cominciato a piangere: “Pensavo di non vederti piùùùùù! Pensavo di non vederti piùùùù!”. Anche lui, a otto anni, aveva cercato per cinquanta ore di non impazzire.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.