La Seat Ibiza
Silvia Avallone e il filo che lega madri e figlie: il posto dove tutto ha inizio, dove si può sbagliare
Quando avevo l’età che oggi ha mia figlia, circa due anni, mia madre mi sistemava sul sedile della Seat Ibiza accanto a sé, in pieno dicembre, e ce ne andavamo a fare il giro degli alberi di Natale delle piazze di ogni paese, noi due sole. Miagliano, Sagliano, Andorno, Rosazza, piccoli comuni del Biellese che a metà degli anni Ottanta avevano appena cominciato a svuotarsi. Li attraversavamo senza fermarci, passando accanto agli abeti avvolti dalle luminarie. Nessuno avrebbe potuto aggiungersi alle nostre scorribande. Guardavo fuori dal finestrino e ridevo come una matta.
È un episodio che in realtà non ricordo: mi è stato raccontato di recente. Ascoltandolo, però, l’ho riconosciuto subito come il mio capitolo primo. Ne ho provato nostalgia.
Non avevo mai pensato di poter assomigliare a mia madre prima che mia figlia, Nilde, prendesse l’abitudine di sedersi di fronte a me, sul divano, e di imbastire storie su una grande varietà di animali del bosco, della palude e della Savana. Allora ho rivisto la stessa scena, solo capovolta.
Mia madre non ha mai scalpitato per cucinare, non ha mai cucito, non si è mai preoccupata più di tanto di farmi le trecce o i codini. Ha sempre amato, invece, parlare. Di politica, d’amore, di equazioni, di romanzi. Si è sempre seduta sul divano davanti a me ad ascoltarmi, lasciando che passassero le ore, si facesse tardi, si accumulasse il disordine, perché nulla era più importante delle cose che avevamo da dirci.
Così anche io, ora, faccio lo stesso. Non intenzionalmente o secondo un progetto, ma perché ho scoperto che mi piace, mi appassiona: ascoltare Nilde. Porle domande e prenderla molto sul serio quando racconta di aver incontrato un drago all’asilo nido, o di aver preparato una torta di mirtilli, lamponi e pasta in bianco. E’ mia figlia, sì, ma io devo ancora conoscerla. Sapere cosa le passa per la testa, cosa sogna, carpirle un indizio su chi vorrà diventare a vent’anni.
Mia madre, di sicuro, è ancora la mia prima lettrice. Inviarle via mail capitoli grezzi, di cui nessuno sa nulla, è per me come ripetere la magia dell’abitacolo della Seat Ibiza, attraversare al buio una valle impervia, lungo una provinciale piena di curve, alla ricerca di nuove luci natalizie.
Come fa tua madre a essere obiettiva? Mi viene domandato a volte. Come fai tu, a trentatré anni, a chiederle ancora di correggerti? Non la conoscevo, prima, la risposta. Ma adesso che trascorro ore a sfogliare libri illustrati, a vedere mia figlia sorridere quando impara un termine nuovo, intravedo in lei un frammento della mia infanzia e posso dirlo: continuo a mandare i capitoli a mia madre perché lei rimane il luogo dove posso sbagliare, essere ripresa ma non giudicata; dove posso iniziare.
Resta il fatto che non le somiglio. Né a Sara, che ha insegnato matematica alle elementari per tutta la vita e dei numeri possiede l’equilibrio, la ragionevolezza. Né a Nilde, che in fatto di cibi, colori e animali ha gusti lontani dai miei. Ci sono mio padre e suo padre a portarci l’altra metà della storia, l’altra visione del mondo di cui abbiamo bisogno. Sappiamo tenerci distinte, sedute di fronte. Proviamo a scalfire l’una il mistero dell’altra, e per fortuna non ci riusciamo.
Lo ha scritto Richard Ford in Tra loro a proposito dei suoi genitori: “Quasi tutto se ne va, tranne l’amore.” Nel mio caso, credo siano proprio i dizionari, i frasari e le letture che hanno declinato questo amore a rimanere.
Quando arriva l’ora di dormire e viene spenta la luce, mia figlia mi tiene per mano perché ha paura del buio. Allora cominciamo subito ad affollarlo. “Voglio la storia del suricato” mi dice. E poi del tarabuso, del kiwi, del ragno d’acqua. Un bestiario che, prima di Nilde, non conoscevo. A ciascuno diamo un nome, Carla o Luigi. L’acme dell’azione coincide spesso con una torta di mirtilli, lamponi e pasta in bianco che viene rubata e restituita. Il primo finale è immancabilmente il suo: “La mangio tutta io”, che poi cerco di smorzare e allargare a un noi.
Non vedo niente perché la stanza è scura, sento solo le nostre parole che all’inizio squillano, poi si abbassano di tono, fino a un sussurro. So che durerà pochi anni, questo suo modo di addormentarsi, e poi ne sentirò la mancanza. So che Nilde non li ricorderà, però mi piace pensare che in segreto potranno guidarla: i nostri personaggi, i colpi di scena che inventiamo. Come hanno guidato me gli alberi di Natale che vedevo attraverso il finestrino.
Mi trovo in mezzo a mia madre e a mia figlia come a due città, familiari e sconosciute. Porto, dall’una all’altra, un carico di parole, e non c’è niente da fare: mi stupisce, mi emoziona, sentire Nilde che dice a mia madre: “C’era una volta, nonna Tara”. Mi rendo conto che sono loro le uniche persone che non riuscirò mai a raccontare. E questa impossibilità mi fa sentire bene: libera di scrivere tutto il resto.
*il suo ultimo romanzo è “Da dove la vita è perfetta” (Rizzoli)