Quelli della domenica
I padri e quei weekend passati al campo di calcio, dove finisce la civiltà e inizia la mostrificazione genitoriale
Eccoci qua, dunque. In questa domenica d’inverno, con questo vento umido che soffia, in questo luogo sperduto nella periferia della periferia romana che neanche il navigatore trovava, col nostro aspetto di cinquantenni stropicciati e malvestiti, la sciarpa, il cappello, alla ricerca di un bar dietro al campo per un caffè nell’attesa del fischio di inizio. Aspettando che entrino per il riscaldamento, sperando che il numero di maglia sia da titolare, che poi da quaggiù sembrano tutti uguali, e uno neanche lo riconosce suo figlio. Qua a far finta di lamentarci, ma possiamo passare tutti i weekend così?, quando in realtà è proprio questo rituale, questa partita, a dare senso alla nostra domenica.
La tribuna sono appena tre blocchi di cemento, i pali della protezione davanti che impallano la porta, la sigaretta appena comincia il match, il prato che quasi non c’è, zolle di terra marrone. Rischia che piove. Gioca? chiedi a voce alta. Questo allenatore non lo vede mai, cazzo, pensi. Sì, gioca, bene, numero 7, gli avversari sembrano dei giganti, non è possibile siano del 2002, che la nostra squadra sia sempre la più piccola fisicamente. Si parlotta da esperti, si commenta la formazione, si guardano di sottecchi i tifosi di casa raggruppati a poca distanza, iniziando a temere che saranno facinorosi, è solo un gioco di ragazzi, si devono divertire, vediamo se anche stavolta i genitori rovinano tutto.
L’applauso convinto e sportivo quando entrano in campo, le prime azioni, quell’arbitro che già fischia a casaccio, che poi avrà quasi la loro età, ma non mandano mai un arbitro come si deve? Al primo fallaccio dei nostri, il nostro coro di papà illuminati, chiedigli scusa, dagli la mano! Ma la fazione avversa alza la voce, chiede provvedimenti, calma dai, lasciamoli giocare, ma niente, urlano, scomposti, volgari, aggressivi e come una falange si compatta il fronte delle mamme nemiche. Le peggiori.
Mulinano le braccia, le mamme nemiche, come pale eoliche, si sono organizzate, hanno portato persino i tamburi, si trasfigurano, sono orche assassine in difesa dei loro cuccioli brufolosi, li vogliono vedere schiantati i nostri, ma un po’ di decenza, che cavolo, zitti, zitti, non rispondiamo alle provocazioni.
Il primo gol è un errore della difesa, non è successo niente, incitiamo, c’è tutta la partita da giocare, il secondo un tiraccio da fuori di quello col codino, avessimo un portiere un po’ più alto che qui basta che prendono la porta e segnano, ma quest’anno va così. Non hanno fame, non hanno fame, io alla loro età avrei mangiato il campo, bofonchia l’amico avvocato, il padre del terzino destro. Poi d’improvviso la palla che finisce al tuo, e si ferma tutto, come un incantesimo: il cuore batte, il respiro trattenuto, Dio ti prego fallo segnare, controlla la palla, si smarca e corre via, come è elegante però, questo figlio, mio figlio.
Perché in realtà quel figlio siamo noi, noi che da ragazzi eravamo un po’ cicciottelli e non ci facevano giocare nel cortile della scuola e provavamo i tiri a effetto da soli in casa tra la camera da letto e il bagno, noi che ora loro sono la nostra rivincita, e il nostro orgoglio nascosto, e ci viene da piangere quando è proprio lui che la mette dentro, e i compagni lo abbracciano, e gli altri papà ti vengono a fare i complimenti e tu ti schermisci, sì, è bravo, non un fenomeno eh, ma è bravo.
Ma c’è un parapiglia, si è sentito un fischio, niente, l’arbitro annulla, le orche assassine esultano, e tu che predicavi la pace nel mondo e il fair play internazionale neanche te ne accorgi e sei lì attaccato alla rete di protezione e dici delle cose all’arbitro che neanche Sgarbi in un talk politico, sei rosso, paonazzo, trasfigurato, cercano di calmarti, le mamme degli altri ti insultano, alcuni ti commiserano, e lui, il tuo numero 7, ti guarda dal campo, in silenzio, e dallo sguardo capisci che si vergogna. Quando la partita finisce hai provato a recuperare un contegno, ti sei scusato con gli altri papà dei tuoi che sono felici che stavolta sia toccato a te per rinfrancarsi di quando capita a loro. La doccia non finisce mai, poi arriva, il borsone col simbolo della società sul sedile posteriore: oh, era regolare, quel gol, gli dici, imbarazzato, non è giusto che te l’abbiano annullato. Boh, dice lui. Dice sempre boh. Ha i capelli bagnati, quell’accenno di baffi che devi ancora insegnargli a tagliare, già armeggia col telefonino. Mi spiace che mi sono arrabbiato con l’arbitro. Non importa, risponde, con la sua voce che è sempre più profonda, andiamo? Andiamo, sì, andiamo, e ingrani la marcia per tornare alla civiltà.