Volevo che ogni istante durasse per sempre, ma è passato un anno

Francesco Longo

Da quando è nata non ho voluto altro che il tempo si fermasse

Buonanotte coniglio, buonanotte muccone, buonanotte omini verdi appesi. Eccoci qua, esattamente un anno dopo, ad accenderle la debole luce fluorescente della sua stanza, depositarla nel letto con ciuccio e orso, pronti per affrontare il momento cruciale della giornata. “Dormirà?” “Sì, sì”. “Dici?”. “Oh, speriamo”. “Ma sono di nuovo tante notti che si sveglia”. “Però erano i denti”. “Senti intanto buonanotte”. “Per caso hai visto se si era scoperta?”. Nel cuore della notte, al pianto prolungato, uno dei due barcollerà fino alla camera – per rimetterle il ciuccio o darle dell’acqua, e la troverà di traverso nel lettino o addirittura in piedi, come un King Kong indifeso in attesa di essere consolato – mentre l’altro resterà semi-sveglio, impietrito, pronto ad andare in soccorso se il pianto non dovesse cessare.

 

Per descrivere la storia di quest’anno – un anno magnifico, tumultuoso, travolgente – bisogna cominciare con delle liste. Cose che l’hanno calmata: i seni con il latte, il frusciare dell’asciugacapelli, le fronde dei tigli, guardare dalla finestra auto e passanti, un leone di legno capace di volgere in sorriso anche i singhiozzi più disperati. Cose che ha desiderato in modo incontrollabile: le tovagliette colorate del mare, una scatola di scarpe fucsia, il biberon con l’acqua, e ancora oggi l’acqua, il suo bicchiere d’acqua, i nostri bicchieri d’acqua. Cose che l’hanno fatta ridere di gusto, addirittura sghignazzare: un pupazzo di lana che si risollevava da solo, la giraffa portatovagliolo mossa al galoppo, il volto di chiunque comparisse all’improvviso – da dietro un foglio, un tovagliolo, un giornale –, quando gattonavo per inseguirla. Ma a calmarla, interessarla e farla ridere è stata sempre e soprattutto la mamma.

 

Il primo anno, per i genitori, è l’immersione in una vita sconosciuta. Si vaga con le occhiaie in un paesaggio ignoto, monumentale e memorabile, giurerei che se ci fossimo trasferiti a vivere su Marte ci saremmo annoiati il giorno dopo. Tutte le novità – nuovi orari, nuovi toni di voce da usare, nuove preoccupazioni, nuove gocce per il naso, nuovi vestiti in miniatura – si presentano come fossero destinate a durare in eterno e invece le novità vengono scalzate da altre novità, in una giostra sfrenata. Impariamo come comportarci e lei cambia. Impariamo a capirla e lei cambia. Impariamo a prevederla e lei ci spiazza. Diventiamo abilissimi con il tiralatte e lei mangia frutta. Diventiamo abili a frullare frutta e lei la afferra spicchi di arancia con le mani e ci si riempie la bocca (apri la bocca, fammi vedere se hai mandato giù tutto). Sotto ai nostri occhi si trasforma: hai visto che ha fatto ciao con la mano? Hai detto a tua madre che oggi si è alzata in piedi? Hai sentito, ha detto mamma, stavolta chiaramente! Guardala, sta spingendo una sedia! Per la prima volta dice no, per la prima volta dice sì, alla fine compone tutti i monosillabi del mondo a parte pa-pà. Ci guardiamo increduli. Ci guardiamo fieri, ci guardiamo sapendo esattamente perché ci stiamo guardando.

 

I primi tempi – quei primi mesi che sembrano appartenere a una vita remota – dopo aver passato tutto il giorno con lei crollavamo dal sonno, eppure prima di spegnerci, scorrevamo le foto scattate, e appena messa a letto già ci mancava. E’ finita quella fase, è finita la fase in cui le cantavo Moon River per addormentarla, è finita la settimana in montagna in cui ha smesso di dormire, è finito il primo 39 di febbre, è finito l’istante in cui ci siamo accorti che sapeva chi fossi: una sera sono arrivato al mare, lei era al piano di sopra per essere addormentata, “se sali la trovi ancora sveglia”, sono salito, ho spinto la porta, mi sono avvicinato a tutte e due, lei si è voltata, mi ha fissato qualche secondo e poi ha sorriso: “Hai visto, ti ha riconosciuto, sa che sei tu!”.

 

Il giorno in cui compie un anno è tutta felice, quasi quanto noi. Cavalca la sua mucca gonfiabile e gattona senza sosta da un nonno all’altro, resta sveglia finché non arriva la candelina. Dalla candelina sono passati altri due mesi. Ha smesso di portarci in giro per il mondo ingobbiti su di lei: si è staccata. Vaga da sola – non avanza più come Frankenstein, con le braccia alzate e protese – ora incede soddisfatta, traslocando all’infinito cuscini, conigli, libri.

 

Mi porti la mucca? Come fa la mucca? E il pesce come fa? Da quando è nata non ho voluto altro che il tempo si fermasse e che lei restasse così com’era, ogni giorno, che restasse così com’era per sempre, senza cambiare mai. Volevo darle il latte a mezzanotte sul divano per sempre, volevo cantare Moon River per sempre, volevo aspettare che dormisse restandole accanto per sempre. E anche adesso che le spieghiamo fatti evidenti – i barattoli grandi non entrano nei piccoli, cadere dal divano fa male, un foglio strappato resta strappato, la banana finita è finita, le persone tornano – vorrei che restasse così, per l’eternità. Buonanotte orso, buonanotte muccone, buonanotte omini verdi appesi. Ci guarda, ci studia. Guarda la sua famiglia. Genitori provati, storditi, e lei che ride.

Di più su questi argomenti: