Il dolore per Giada, che non è riuscita a liberarsi delle sue bugie
Lanciarsi dal tetto per non cedere alla verità. Le domande di una madre e la nostra paura così vicina
La domanda di una madre, che addosso ha ancora i vestiti scelti per fare una bella figura alla laurea di sua figlia, è: come ho fatto a non capire? Come ho fatto a vivere, a ridere, a credere, ad addormentarmi la sera, a pensare che Giada avesse preso ventotto all’esame, che stava scrivendo la tesi, che dovevamo scegliere le bomboniere, come ho fatto a non vedere la verità? Prima di tutto viene il dolore e lo sgomento, quella sensazione di avere solo nebbia e sassi dentro il cervello: sono in un incubo e sto per svegliarmi. Il dolore certo non finisce mai, ma quella nebbia si dirada, la realtà si fa largo, insieme a tutti gli indizi che sono sempre stati lì, davanti agli occhi, invisibili se non vuoi vederli. Invisibili anche se la tua mente funziona in un modo così limpido che non riesce a penetrarla il sospetto che tua figlia possa vivere una vita da fantasma. Lei parla, racconta, oppure cambia discorso, tu le credi e l’abbracci.
La madre di Giada era arrivata a Napoli dalla provincia di Isernia per la laurea, per vedere sua figlia con la corona di alloro in testa, come tutti gli altri, per andare a pranzo al ristorante con i genitori del fidanzato di Giada venuti da Roma e con gli amici stretti, come aveva voluto proprio Giada. In quelle ore sua madre avrà pensato a mille cose, avrà preparato i fazzoletti per piangere, sistemato il tailleur, spazzolato la giacca di suo marito, e forse un pensiero l’ha attraversata come un fulmine ma l’ha subito scacciato. Forse negli anni ha avuto brevi sospetti, sogni a occhi aperti o tormenti notturni, ma la luce del giorno le riportava sempre il sorriso di Giada, che era dolce e studiava e amava la vita, guidare l’auto e cantare a squarciagola, la carne alla brace, le risate, uscire la notte per chiacchierare. Non era più iscritta all’università, non aveva mai dato nemmeno un esame: la verità che teneva in un angolo della mente. Quel giorno alla Federico II non conosceva nessuno, perché lì non c’era mai stata. Giada è stata iscritta per tre anni alla facoltà di Farmacia, il quarto anno ha deciso di non andare più neanche in segreteria per l’iscrizione, e lì a Monte Sant’Angelo i suoi coetanei stavano per diventare dottori in Scienze naturali. Forse sapeva che poteva salire sul tetto e buttarsi giù, l’aveva programmato e poi cancellato, cancellato e programmato, e intanto l’altra sua vita andava avanti. Quando il suo fidanzato le ha telefonato, perché non la trovava nei corridoi dell’università, nel giardino, da nessuna parte, e i genitori si aggiravano sperduti tra gli studenti, lei gli ha risposto e detto: “Sono qui, non mi vedi? Alza gli occhi”, e si è buttata.
Jean-Claude Romand, che non si era mai laureato in Medicina e non aveva mai vinto un concorso e non era niente di quello che raccontava al mondo e agli amici: ha sterminato la sua famiglia, i genitori, la moglie, i due bambini, ha provato debolmente a uccidere la sua amante, e con molta meno forza ha tentato di suicidarsi. Mentre era in ospedale il suo migliore amico e la moglie pregavano perché morisse, pregavano per lui ma anche per loro stessi, perché anche tutta la loro vita adesso era in discussione: loro gli avevano sempre creduto, loro non avevano mai avuto dubbi, loro erano stati testimoni dell’orrore, avevano messo a rischio la vita dei loro figli. Emmanuel Carrère ha scritto un grande libro su questo fatto di cronaca, L’avversario. L’avversario è la persona che hai davanti e i cui pensieri entrano in contatto con i tuoi, l’uomo disgraziato che potresti essere, l’esperienza umana di chi ha portato all’estremo la menzogna, il baratro che riguarda sempre almeno qualcuno che conosciamo, o addirittura il nostro desiderio, la tentazione di fingere qualcosa che non siamo, le virtù che non possediamo. Costruire un castello di bugie, e convincersi che sia tutto vero: basta un passo, e vedere che è facile, basta non tornare indietro. Le bugie, allora, sono le vite degli altri. Jean-Claude Romand per diciott’anni ha camminato nei boschi invece di andare a lavorare, ha atteso nei parcheggi con la sua borsa di pelle, e ha comprato regali di compleanno per i figli da parte dei colleghi dell’Organizzazione mondiale della sanità, ha detto per diciott’anni a sua moglie di non chiamarlo mai in ufficio, ma di lasciargli un messaggio sul cercapersone. E poi l’ha uccisa, e l’ha bruciata. E i sopravvissuti si chiedono, e tutti noi siamo chiamati a chiederci: che cosa aveva dentro la testa? Qualcosa che ci riguarda tutti.
Giada non ha ucciso, si è uccisa. Giada si è buttata dal tetto della facoltà, con i capelli sistemati dal parrucchiere, l’abito nuovo e la festa organizzata. Quella giornata era tutta per lei, lo è stata in un modo tragico, definitivo. Ha evitato tutte le vie d’uscita, fino alla fine. Non voleva distruggere l’idea che altri avevano di lei, non voleva raccontare una debolezza che è diventata una valanga. Poteva liberarsi solo dicendo: ho fatto un casino. O facendosi scoprire. Non è successo, perché mentire è così semplice. Sua madre adesso resta con questo pensiero durissimo: non averlo capito, non averla salvata, liberandola dalle bugie. Restano le bomboniere e la pietà, resta in molti di noi il dolore segreto di chi si sente troppo vicino a Giada per non avere paura.