La gioia furiosa dei ricordi, e il tuffo dal punto più alto dell'altalena
Non guardo mai le fotografie di chi ero, ma ho visto Elena e avevo di nuovo sette anni
Credevo di non avere ancora bisogno di ricordi. Quando guardo vecchie fotografie chiudo sempre gli occhi di fronte alla me stessa di dieci, quindici o vent’anni fa. Quella che sorride o si nasconde o cerca di non sembrare impacciata non mi piace mai, non mi fa nemmeno compassione, o invidia per tutta quella giovinezza. Provo anzi un po’ di vergogna, mentre mi commuovono tutte le fotografie dei miei figli, dei loro amici, dei cani e dei gatti che hanno attraversato la nostra vita.
Alla versione dei ricordi ancora mi ribello, non rileggo vecchie lettere, per ora non voglio incontrare la persona che ero, e quando succede provo sempre una fitta di fastidio. Le frasi sui diari, le dediche sui libri, mi sembra che stia tutto dentro un cammino che si deve ancora compiere, mi piace pensare a quello che ancora non so, non a quello che sono stata, mi piace credere che migliorerò, non importa se non è per niente vero. Anche i miei figli sbuffano quando tiro fuori dalle scatole le fotografie di quando erano molto più piccoli (fotografie che da molti anni non stampo più, e che quindi stanno dentro telefoni rotti o perduti e dentro computer che esploderanno presto: a un certo punto avrò soltanto foto di neonati, e tutti mi rinfacceranno, quando sarà il momento, l’assenza di ricordi). Giulio, guarda quanto eri piccolo e buono: ah sì, molto interessante, dice lui mentre corre via urlando. Benedetta, vuoi vedere il video di quando hai imparato a camminare? No mamma, ciao.
Un po’ mi offendo, considerato che quelle gambe e quelle braccia e tutto il resto sono usciti da me, e vorrei che loro si stupissero nel vedere quanto erano piccoli e nudi, nel vedere il fasciatoio su cui li cambiavo, con il gatto che occupava tutto lo spazio, il divano verde, i libri per terra perché non c’era ancora la libreria, ma so che hanno ragione loro: questo è il tempo di vivere correndo in avanti. Però mi è successa una cosa, e in un istante mi è saltata addosso la gioia furiosa dei ricordi: non sono riuscita a fermarla.
Ho incontrato Elena dopo almeno venticinque anni. Elena era in classe con me alle scuole elementari, e dopo le elementari ci siamo completamente perse di vista, scuole diverse, vite diverse. L’ho incontrata pochi giorni fa, una donna con due bambine molto belle accanto, le sue figlie, e mi ha detto: ti ricordi?
All’improvviso ho avuto di nuovo sette anni. In un secondo ero accanto al telefono fisso, quello grigio, ad aspettare la telefonata in cui lei mi invitava a giocare nel suo giardino il sabato pomeriggio. A volte quella telefonata non arrivava mai, a volte addirittura lei mi telefonava per dirmi che quel giorno non poteva invitarmi, e io soffrivo tantissimo ma le dicevo: va bene, grazie, ciao. Appoggiavo la cornetta e mi sentivo la persona più disgraziata della terra, proprio l’ultima degli ultimi. Piangevo. Invece quando Elena mi diceva: puoi venire a casa mia oggi pomeriggio? (con la erre moscia lo diceva), io ero già pronta vicino alla porta, contavo i minuti, fremevo di gioia, ho imparato a leggere l’ora cercando di capire quando erano le tre e mezza di pomeriggio. Ci buttavamo dalle altalene, dal punto più alto che riuscivamo a raggiungere, e una volta sono atterrata così forte che non respiravo più. Che esaltazione, quando ho ricominciato a respirare. Ma tutta quella vita è passata e adesso Elena stava lì in piedi, davanti a me, con le sue figlie, aveva per forza quarantadue anni ma a me sembrava che ne avesse sette. Ho balbettato solo: sei identica, e mi sono commossa mentre lei si commuoveva, non riuscivo a oppormi alla violenza di quell’incontro. Mi ha detto: ci travestivamo in mansarda, non potrò mai dimenticarmelo (ha sempre la erre moscia). Io di certo non l’ho mai dimenticato: inventavamo storie di pirati e di duchesse, con le parrucche e i vestiti di carnevale dei suoi fratelli più grandi. Quella felicità era così forte che a sentirla adesso fa quasi male. Non desideravo altro che essere invitata il sabato pomeriggio, per vestirmi da pirata e per mangiare le pizzette che ci preparava la madre con la salsa di pomodoro. Per stare in quel giardino con Elena. Non sapevo che stavo accumulando ricordi. Correvo in avanti, insieme a lei, e adesso penso che quella sia stata la mia prima storia d’amore, con la gelosia per le altre amiche, la paura di non essere invitata più, il desiderio di passare tutto il tempo insieme, anzi di essere lei. Non ci siamo dette nient’altro, Elena e io, lei è andata via con le sue figlie e io mi sono sentita come dopo il tuffo dall’altalena. Non ho nemmeno una fotografia.