Il bene selvaggio
I grandi capolavori non spiegano: mostrano. Che un bambino ama forsennatamente
La storia vuole che all’uscita de Nel paese dei mostri selvaggi Bruno Bettelheim lo abbia aspramente criticato invitando, anzi, i genitori a non lasciare il libro di notte nella stanza dei figli (“Don’t let this book overnight in your child’s room” era il titolo della sua recensione). Ma il problema, temiamo, è che il consiglio sia stato indirizzato alla categoria sbagliata: vista la natura del libro non sono i genitori a non doverlo lasciare nella stanza dei figli, ma piuttosto i figli a non volerlo lasciare nella stanza dei genitori, perché dice dei figli e dei bambini quello che non è affatto scontato vorrebbero far sapere agli adulti.
Lo diciamo col senno di poi, certo, perché a vederlo dopo più di cinquant’anni dalla sua uscita, è chiaro come Nel paese dei mostri selvaggi di Maurice Sendak sia un capolavoro (quanto Don Chisciotte o La tempesta o Orgoglio e pregiudizio – per dire). Milan Kundera sostiene che il compito del romanzo è di mettere in scena le differenti possibilità dell’esistenza umana. E questo su di un piano psicologico serve due volte: la prima perché permette al lettore, fra le tante, di riconoscere la propria esistenza: gli dà la possibilità di ritrovarsi, trovare se stesso. La seconda perché rende il lettore riconosciuto e accettato dal mondo a lui esterno, confermando, appunto, la possibilità della sua esistenza in un se pur vasto catalogo. Ovviamente più un libro è alto, cioè si avvicina all’universalità, più è efficace questo riconoscimento. Ma l’universalità la si vede con il tempo. Di Cervantes, di Shakespeare o di Jane Austen siamo certi perché le loro opere hanno resistito ai secoli, mantenendo la loro attualità. Il caso del libro di Sendak è invece abbastanza sorprendente, perché si tratta di un albo illustrato, e anche perché la sua universalità e il suo essere un capolavoro sono chiari a cinquant’anni dalla pubblicazione.
Nel paese dei mostri selvaggi ha venduto circa venti milioni di copie, in decine di edizioni e quasi tutte le lingue del mondo: in Italia è stato pubblicato nel 1969 da Babalibri, ora è uscita una nuova edizione per Adelphi. Ha il formato di un albo illustrato e delle immagini bellissime e (come ha abilmente mostrato Anna Castagnoli) piene di riferimenti a Piero della Francesca o alle illustrazioni della Commedia di William Blake. Adulti fra queste pagine non se ne vedono, anche se sono presenti, appare soltanto il protagonista, la profondità della sua anima e la trasformazione che la sua coscienza impone ai suoi luoghi e le sue emozioni. Di parole, il libro ne conta poche, ma sono scritte con la sapienza dei più grandi poeti; tutta la narrazione è dominata dall’ellissi e dalla sottrazione, eppure dice molto più di quello che sembra: non è semplicemente la storia di un bambino che si comporta male, viene punito, si rifugia in un mondo tutto suo e poi cerca la via del ritorno. Come accade soltanto per la grande letteratura, questo libro non dice – e meno che mai spiega – ma mostra. Mostra cos’è l’infanzia, la mente di un bambino, la sua misteriosa anima, le fa parlare.
Sbagliava, quindi, Bettelheim a non volerlo lasciare nella stanza dei figli, perché questi già lo sanno cosa significa essere arrabbiati, voler scappare, volersi fare un mondo in cui rifugiarsi e dove essere il re della propria rabbia, del proprio amore e della propria forza: sanno benissimo come può essere selvaggio il bene, quale foresta di piante attorcigliate tra di loro sia il dolore, quali mostri abitano la propria coscienza e quale mare sconfinato si debba attraversare per potersi conoscere fino a capire, poi, di poter tornare a casa. A leggere questo libro, quindi, i nostri figli si riconosceranno in Max, il protagonista, capendo – visto che qualcuno ha pensato di metterli dentro a un racconto tanto bello – di essere anche loro dei mostri selvaggi, esattamente come lo sono tutti gli altri bambini.
Quelli che potrebbero restare sconvolti nel leggere il libro sono invece i genitori, soprattutto se pensavano di poter controllare le coscienze dei loro figli, decidendo quali libri tenere nelle loro stanze. Giusto all’inizio della storia, Max viene sgridato dalla madre: “Selvaggio! gridò la mamma. E allora ti mangio, urlò Max. Così fu spedito a letto senza cena”. Tutto comincia con questa risposta tanto violenta, viscerale e inaccettabile per un adulto. Dopo essere arrivato nel paese dei mostri selvaggi, esservi diventato il re e aver scatenato il finimondo, Max si sente solo e vorrebbe essere con qualcuno che lo ama “terribilmente”, così decide di ritornare. I mostri selvaggi lo supplicano: “Non te ne andare! Ti amiamo così tanto! Ti mangeremmo!”.
Ecco, ci sembrerà assurdo, ma è così che amano i bambini: mangiando. E questo tipo di amore non è facile da capire, meno che mai da spiegare, per degli adulti. Serve un grande artista, per mostrarlo.
*poeta e scrittore