La tua badante
Sofia, Camila e le altre a cui cambiamo i nomi. La nostra nuova geografia di famiglia
Spanova Tsonka Simeonova arrivò nel luglio del duemiladieci a casa di mia suocera. E fu un sollievo. L’affaire badante era diventato un vero e proprio incubo per la famiglia. La mia suocerina di ferro infatti ne aveva cambiate una decina in pochi anni. Troppo giovane, troppo vecchia, troppo disordinata, troppo curata, troppo magra, troppo grassa, non sa parlare, non sa cucinare: era questo il refrain che si ripeteva almeno un paio di volte all’anno gettando i figli nel panico e sguinzagliandoli in una nuova ricerca.
Trovarne un’altra, in piena estate poi, non fu facile, la situazione domestica non era semplicissima, tutt’altro: una donna ultraottantenne e molto esigente, con il campanello sempre a portata di mano e con a carico un figlio anziano completamente disabile dalla nascita. Inoltre nei giardini di piazza Umberto a Bari, dove tutte le badanti della provincia si riunivano i giovedì pomeriggio, si era sparsa la voce dei numerosi licenziamenti da parte della signora in questione, e le aveva rese diffidenti. Nonostante questo, in un caldissimo pomeriggio di luglio, Spanova, una quarantenne bulgara minuta ed elegante, si presentò al cospetto della temutissima signora Lucia e subì un attentissimo esame.
Dopo una buona mezz’ora e una mitragliata di domande, mia suocera sprofondata nei cuscini del suo letto e in un’aura di Chanel n. 5, con un regale cenno di assenso comunicò che sì, andava bene. Ma di chiamarla Spanova, non se ne parlava affatto. L’avrebbe chiamata Sofia, come la Loren.
E così fu, la badante dal nome impronunciabile diventò Sofia per tutti, e tale è rimasta. Anche adesso che mia suocera non c’è più, e continua a prendersi cura di Luigino. Sofia, con la sua dolcezza e la sua presenza discreta ed essenziale è entrata a far parte della nostra geografia famigliare, ha modificato abitudini e ricette, (io stessa preparo spesso la sua ciambella senza uova, o le lenticchie con i peperoni) ci ha sollevato da una responsabilità immensa. Le siamo tutti grati.
Alla cura di un famigliare anziano quasi sempre non autosufficiente, noi ex baby boomer ormai attempati e super impegnati, non siamo pronti, non siamo abituati. E così ci aggrappiamo a queste signore straniere senza volto, senza passato, senza famiglia. Non perché non ce l’abbiano, no. Solo perché ci fa comodo crederlo. A noi interessa solo che si prendano cura dei nostri famigliari, che li sappiano gestire e curare, che li pettinino, li nutrano e li portino a passeggio un’oretta intorno all’isolato, ma solo quando c’è il sole altrimenti prendono freddo, si ammalano e ci tocca parlare con il medico. Ma soprattutto che non ci disturbino per un nonnulla, soprattutto di notte, ché abbiamo professioni di grande responsabilità, e occorre riposare.
In fondo ci importa poco di loro, dei loro figli lontani, delle madri anziane di cui non potranno prendersi cura. Le paghiamo per questo, le mettiamo in regola, paghiamo i contributi. Regaliamo un profumo a Natale, i vestiti smessi e la pelliccia che non usiamo più, ma non venissero a chiedere una mezza giornata di permesso in aggiunta al giovedì, perché non si può. Ma vogliamo scherzare? E come facciamo scusate, con i nostri lavori di grande responsabilità?
Così importanti, queste piccole donne, eppure così invisibili. Hanno modificato le nostre vite e gli equilibri famigliari, eppure non gli riconosciamo la giusta dignità. Anche la letteratura continua a ignorarle, ancora oggi pochissimi libri le comprendono nel raccontare le storie di questa Italia contemporanea. Forse è per riparare a questa mancanza che nel mio ultimo libro, uno dei personaggi principali è Camila, la badante di un vecchio preside romano.
La genesi de La teoria di Camila comincia qualche estate fa, nell’agosto del duemilanove, quando mi capitò di leggere una lettera pubblicata sulla prima pagina del Corriere della Sera, a cura di Marcello Veneziani. A scriverla era un figlio. Raccontava di un padre novantenne, sorpreso una notte in cerca di tenerezza tra le braccia della sua giovane badante. C’era indulgenza nelle sue parole. Raramente i figli ne hanno. Le debolezze dei genitori spesso sono stigmatizzate, mal sopportate. Quella lettera mi fece riflettere sul bisogno d’amore a ogni età, e su quanto negli ultimi vent’anni si siano modificati alfabeti e geografie delle nostre famiglie.
L’emozione che produsse quella lettura generò il bisogno di scriverne. Ritagliai la lettera e la conservai in un cassetto, pensando che sarebbe potuta diventare una storia da raccontare. Ci sono voluti nove anni per immaginarla, comporla e farla diventare un libro.
*E’ appena uscito in libreria “La teoria di Camila” (Sergio Perrone editore)