Bar Sport Esilio
Il controllo della Lory, che dà e toglie gioia famigliare solo allungando la minestra di fagioli
Alla fine di un libro restano sempre pagine esorbitanti. Stralci di potature, recisi nella speranza che la pianta concentri l’energia vitale in quel che resta e possa fiorire di qualche bellezza. Così, mentre mettevo mano alle forbici per consegnare In Esilio alla mia preoccupatissima editor in Rizzoli, alcune gocce di quel sangue oscuro che attraversano i rami genealogici delle famiglie, e che ero andato rintracciando nella mia, erano sgorgate dai tagli spietati del testo. Queste però riguardavano piuttosto la vita al paesello e certi momenti atrabiliari di cui ero stato testimone al Bar Sport.
Come quel giorno che il barista sbuffava dietro la macchina del caffè e guardava in basso scuotendo la testa, quasi fosse compreso in un dolore che eccedeva le parole ma che pure segnava per lui la consapevolezza definitiva della stortura del mondo. Io mi peritavo a chiedergliene ragione, per delicatezza. E così rigiravo il cucchiaino nella tazzina, lentamente, ma poi finalmente rompevo gli indugi: “Federico, cosa c’è? Che ti è successo? Lo vedo che stai male…”.
“Niente guarda… non ci si può credere, ero a mangiare da mamma, ma mi sono alzato e sono venuto via perché questa volta sennò finiva male per davvero”. E allora incalzavo: che cosa mai? Da dove veniva quel dolore profondo? Cosa aveva inquietato l’armonia famigliare fino al punto di farlo uscire di casa sbattendo la porta?
“Se la sera fai la minestra di fagioli e me la ridai il giorno dopo a me mi va anche bene perché la minestra di fagioli il giorno dopo è anche più buona, perché lo sai com’è no? Il giorno dopo è più densa, è il suo bello”, mi spiegava Federico. Ma cosa aveva fatto sua madre? “C’ha rimesso il brodo e me l’ha data lunga! Acquosa! Ma era zuppa lombarda? No! Era minestra di fagioli! E allora ho preso e gliel’ho rovesciata nella pentola e me ne sono andato perché a me queste cose mi fanno uscire di cervello”. La minestra di fagioli, ecco cosa.
E poi esattamente una settimana dopo era toccato a Lido, suo padre, col quale sono solito intrattenermi al tavolo da gioco, in partite a scopa testa a testa che perdo immancabilmente, ma che continuo a giocare solo per il gusto di ammirare la sapienza misteriosa dei giocatori di paese, che all’ultima mano buttano giù le carte perché sanno già come va a finire e sentenziano: “Te fai uno, io due, la primiera si impacia”.
Quel giorno Lido era entrato al bar senza neanche salutare. Gli avevo sventolato le carte davanti, nella speranza che volesse darmi l’ennesima lezione, ma lui aveva scosso la testa in segno di diniego. Era rimasto in silenzio con lo sguardo perso nel vuoto e una smorfia stampata sulla faccia. Però non me la sentivo di chiedere a un uomo di quasi ottant’anni che cosa non andasse. Non me ne bastava il cuore.
Il giorno dopo, quando lo rividi, gioviale e scherzoso come sempre, presi coraggio: “O Lido, ma cosa t’era successo ieri? M’hai fatto preoccupare!”. “Cosa mi era successo?! Lo sai te perché si chiama ribollita, no? Perché il giorno dopo la ribolli. E’ meglio del giorno prima, la ribollita. Si chiama così apposta!”. “E allora?” avevo chiesto timidamente. “E allora se me la riallunghi col brodo vuol dire che mi vuoi male!”. La ribollita, ecco cosa.
Il quarto di sangue oscuro nella famiglia dei proprietari del Bar Sport, qui al paesello, si manifesta sempre dunque in questa malinconia causata dal perfido allungamento del brodo da parte della Lory che, comprendo ora, utilizza questa sottile forma di controllo nei confronti dei maschi della famiglia, affinché ricordino sempre che, nel matriarcato italiano, è lei che dà sapore ed è lei che lo toglie.
Perché le cose del quarto di sangue oscuro al Bar Sport del paesello stanno esattamente così come le ho raccontate, e mi sia testimone il Benedetti, padre della Lory, che fra poco compirà centotré anni e che se ne sta tutto il giorno seduto in un cantuccio del bar. A fare cosa? A fumare, ovviamente: una Camel dopo l’altra. Perché uno non vale uno, e la legge Sirchia che dal 2003 proibisce di fumare nei luoghi pubblici, vale per me e per te, ma non vale per il Benedetti che oramai si è posto al di là di ogni legge umana e sbuffa fumo direttamente in faccia al Padreterno.
E’ lecito pensare che dopo più di ottant’anni ininterrotti di nicotina, nelle vene del Benedetti scorra ormai un sangue oscuro denso di catrame, a riprova di come si possa sopravvivere a tutto. Persino al millennium bug, di cui lo stesso Benedetti è l’unica vittima accertata, quando lo si vede imprecare con la tessera sanitaria davanti al distributore automatico del tabaccaio: essendo nato nel ’15, il distributore, che gli dà poco meno di tre anni, si rifiuta di vendergli le sigarette.
Simone Lenzi è in libreria il suo ultimo romanzo,“In Esilio” (Rizzoli)