Storia di Scaio, gigante buono del calcio italiano
Enzo Scaini era “un mediano poderoso”. È morto a ventisette anni senza un perché
Enzo andava tutte le sere ad aspettare Rossella davanti al negozio, stanco ma sicuro di voler essere lì ogni giorno, un’ora insieme e poi ognuno a casa propria, ché alle dieci e mezza bisognava rientrare. Enzo aveva ragione, aveva visto giusto, la stanchezza e le regole contano poco se hai incontrato la donna della tua vita, l’hai riconosciuta subito e lei ha riconosciuto te: la presentazione ai genitori, il matrimonio, due figli, una città diversa ogni anno, traslochi, appartamenti a cui dare il cuore di una casa in fretta, senza potersi fermare, ma non importa, siamo insieme e un giorno riusciremo anche a fare il nostro viaggio di nozze, in Inghilterra, che sogno.
Enzo e Rossella sono i protagonisti del libro Non ero Paolo Rossi (Edizioni Eraclea), che è un libro d’inchiesta – con le carte di un processo, le testimonianze, la verità che galleggia e nessuno riesce ad afferrarla, anche se è lì, e si vede – ma che soprattutto è la storia di una famiglia, di una moglie rimasta vedova giovanissima, del calcio degli anni Ottanta nella provincia italiana, il calore dei tifosi, le ginocchia fragili, le squadre con il potere assoluto sui destini dei giocatori.
Enzo Scaini, detto Scaio, era un calciatore, “un mediano poderoso” dicono i tecnici, “un gigante buono” ribattono i tifosi, tantissimi, gli amici, i familiari, sua moglie Rossella. Aveva giocato in molte squadre della serie C e B, dal Sant’Angelo Lodigiano al Monza, al Campobasso, al Perugia, al Vicenza. Cambiamenti rapidi, non sempre voluti ma accettati, perché il calcio si stava trasformando – con i Mondiali vinti nel 1982 sarebbe cambiato per sempre – ma allora non c’erano ancora agenti o intermediari: c’erano le squadre, i medici, i giocatori, le loro ambizioni, e a volte le gambe che si rompevano.
Enzo è morto il 21 gennaio del 1983, nella clinica Villa Bianca di Roma, dopo un’operazione al menisco. Aveva 27 anni. Giampiero De Andreis, che ha scritto questo libro assieme a Emanuele Gatto, è venuto a conoscenza di questa tragedia facendo un trasloco: il giornale con cui impacchettava un bicchiere o un piatto riportava il titolo sulla morte misteriosa di Enzo. Un’operazione banale e, quarantacinque minuti dopo, la morte: a Enzo s’è fermato il cuore.
I due autori ricostruiscono il processo, le testimonianze, i ricordi che non collimano, e si sente forte la voce di Rossella, che ha visto Enzo diventare bianco, appena uscito dalla sala operatoria, ha chiamato gli infermieri, ha urlato, ha detto salvatelo e da quel momento ha ripetuto soltanto: ditemi che cosa è successo. La verità pare inafferrabile e il processo non è stato in grado di accertare granché: sono stati tutti assolti, la scomparsa di Enzo è diventata un altro caso di morti bianche del calcio. Ma in questo libro accurato e dolce non ci sono soltanto dosaggi di medicine sbagliati, visite mediche, il ritardo nei soccorsi: c’è il gigante buono che era marito di Rossella e padre di Eva e Thomas.
Conosco Eva da molti anni, non mi ha mai parlato di suo padre. “Ma perché abbiamo un sacco di altre cose di cui parlare, per fortuna”, dice. Tra le tante voci che raccontano Enzo in “Non ero Paolo Rossi” non c’è quella di sua figlia Eva, “eravamo piccoli, mio fratello e io, non abbiamo tante informazioni da dare”: Eva va alle commemorazioni, si commuove quando qualcuno ancora oggi si ricorda di suo padre, ha una cartellina sul computer dove archivia le foto, ha letto il libro su suo padre “in una notte, ci sono tanti nomi che per me sono facce e parole, è stato bello”, ma non prova lo stesso senso di ingiustizia di Rossella.
“Mia mamma è stata molto brava con me e mio fratello, ci ha protetti dalla mancanza del babbo e dal processo”, dice Eva, che aveva cinque anni quando Enzo è morto. Ha dei ricordi netti: il babbo le ha insegnato ad andare in bici senza rotelle, le leggeva i libri alla sera, “il nostro preferito lo aveva portato da un ritiro, raccontava le storie dei primi cartoni di Walt Diseny”, le faceva un sacco di foto, la portava agli allenamenti, “era il suo modo di far passare i miei capricci”, una volta l’aveva anche sgridata, “avevo mangiato delle noccioline e avevo lasciato tutti i gusci sulla panchina dell’allenatore, si arrabbiò moltissimo”. Oggi Eva segue il calcio e non ha rancori, Enzo “resta il mio eroe buono, non invecchia, per me è sempre il mio papà che mi coccola”, quell’uomo alto, con i baffoni, l’abbraccio stretto, così innamorato della mamma.
Rossella ha combattuto la battaglia per tutti, protettiva e “strillona, esuberante, facile alle incazzature”. “Purtroppo Scaini non era Paolo Rossi”, le disse Sergio Campana, presidente dell’Associazione italiana calciatori. Quando Rossella gli chiese perché l’inchiesta fosse così inconcludente. “Glielo vada dire ai miei figli – rispose Rossella – A loro andava bene Enzo Scaini”.