Troppa felicità
“Sono incinta”. “Non ci credo”. Questa pancia piena di lei mi fa accomodare meglio nel mondo
Non sarò una brava madre. Questo lo so bene, eppure sono felice di essere incinta. E sono felice perché di essere o no una brava madre non me ne frega niente. La questione per me nemmeno esiste, il dubbio nemmeno lo formulo. Esiste invece la certezza che non sarò capace. Questo mi mette immediatamente in uno stato di grazia, e di felicità. Non dovrò preoccuparmi di nulla, perché so che non ce la farò, ma quel poco che riuscirò a fare lo farò al meglio. Al mio meglio.
Passo le giornate a lavorare, in silenzio. Poi nel mezzo del pomeriggio inizio a pensare in modo vago che ho 37 anni e sono incinta. Non ne so niente di che cosa sono i bambini. Verso di loro non ho nessuna sensibilità. È grave dottore? Mi preparo un panino, ci metto dentro di tutto e appena addento mi sento scoppiare di felicità e penso: quanto cazzo è buono questo panino. E subito dopo: sarà felice anche lei di mangiare questo panino.
E se anche non sarò una brava madre, la farò mangiare bene.
Non l’ho detto a nessuno per un bel po’, adesso invece inizio a scegliere delle persone. E’ domenica, fa caldo, vado al mare con una mia amica, e mi sento così bene che decido di dirglielo.
“Sono incinta.” “Non ci credo.”
Bevo un sorso di birra mentre guardo i suoi figli scoprire il concetto di malinconia delle sei del pomeriggio sulla battigia. Lei invece mi tiene gli occhi puntati addosso, su tutto il corpo, sulla pancia che ancora non si vede, sulla faccia, sulle tette. “Non ci credo”, mi ripete. Tra le poche persone a cui l’ho detto, sto facendo un conto con le mani per capire se finora è stata più grande la loro sorpresa nell’apprendere questa notizia, o la mia a guardare la loro reazione.
Non ci credo.
Mi asciugo il sudore dalla fronte. Preferirei non dover dare nessuna notizia, ma semplicemente un giorno partorire e poi avere questa bambina per casa, per strada, ovunque. Vorrei che fosse una cosa scontata per tutti. E poi, la vorrei molto autonoma, ma so che viene fuori quello che capita.
Quando ho saputo che lei era nella mia pancia, ho iniziato subito a godermi il divertimento. Mi è sembrato questo, soprattutto: una novità da scoprire che mi avrebbe fatto divertire. E infatti, ho scoperto molte cose: che posso sentirmi male e bene nella stessa frazione di minuto, ad esempio. Ma anche come piegare delle tutine minuscole con gli orsetti. E ho scoperto anche che non so che farne di tutte quelle tutine con gli orsetti eppure sono contenta perché se qualcuno me le ha regalate significa che serviranno e, così, io non dovrò compilare una lista.
Io ho sentito una felicità immediata.
Ma gli altri no. Pare che io, durante tutti i miei trentasette anni, non abbia mai mostrato i segni di un desiderio di maternità. Ed è vero, lo confermo, ho dovuto far passare tutto questo tempo di vita adulta per convincermi che volevo un figlio. Ma adesso, questa felicità è una cosa seria, è un macigno. E io sto scoppiando di felicità, lo ammetto.
Però, gli altri non ci credono.
Ho compiuto un atto di terrorismo. Non se l’aspettavano da me. Avere un figlio è qualcosa che fatica ad adattarsi alla mia personalità. Un po’ come se decidessi di sposarmi, o di smettere di lavorare e mi costruissi una casetta di paglia alle Bahamas, facendola diventare la mia residenza fissa.
Insomma, ho deluso qualcuno. Quel non ci credo è spesso seguito dal non pensavo che tu volessi.
La notizia arriva gradita, sorridono tutti. Eppure c’è come una nube polverosa che si alza dal terreno, che li confonde, li avvolge e li blocca in posizioni scomode. Questa notizia è una materia che le persone a me vicine non sanno penetrare. Ma, lo ripeto, io sono felice.
Tutta questa incredulità che mi circonda mi fa venire solo un dubbio: devo ridefinire la mia personalità?
Non volevi figli, e ora sei felice.
Dovrei mentire: giuro di non essere così tanto felice, giuro di avere paura di non essere una brava madre. Giuro quello che volete, ma amatemi come mi amavate prima, quando eravate certi che non avrei mai voluto un figlio. Ma gli altri non hanno bisogno delle mie menzogne, perché hanno la loro verità. Risanano lo strappo tra l’immagine che negli anni si sono fatta di me e me che ora sono incinta, con un’altra frase: vedrai, ti cambierà la vita.
Lo dicono per rassicurarmi del sentimento ambiguo che di sicuro devo provare, per tutte le incertezze che credono mi stiano tormentando (e che invece no), per darmi coraggio quindi. Mi cambierà la vita.
Ma io non sono preoccupata, nemmeno un po’. E se c’è una cosa che vorrò evitare – da cattiva madre quale sarò – è proprio questa: farmi cambiare la vita, farmi migliorare la vita da mia figlia.
Finora non ho voluto un figlio perché ho fatto una vita bellissima. Una vita felice nella quale mi sono afflitta notte e giorno per cose piccole che per me sono state, sono e saranno sempre serissime. Avere la mia vita, la mia infelicità, e in questo modo sguazzare dentro i pomeriggi di benessere, strazianti, che hanno sempre costruito la mia casa.
Sapere che per mia figlia non sarò una brava madre, mi toglie dal tormento di doverlo essere. E l’allegria di questa pancia piena di lei mi fa accomodare meglio in questo mondo. E se non la capirò io, in qualche modo mi capirà lei.
Ilaria Macchia, sceneggiatrice e scrittrice