Scusa se non parlo abbastanza, ho una scuola di danza nello stomaco
Ho perso il diritto unico alla paura, adesso tocca a mia figlia: a me la tenerezza straziante
Credevo di essere la sola, in famiglia, ad avere il diritto alle preoccupazioni. Perché sono la madre, perché se i libri di scuola non li compro io non lo fa nessuno, perché i bambini sono bambini e i maschi, beh i maschi si sa che sono maschi.
Quindi solo io posso avere in testa l’elenco delle paure in ordine alfabetico, dalla A di annegamento alla Z di zecca che si attacca ai bambini e fa venire la febbre e se non te ne accorgi subito sei nei guai per anni. Ho anche preoccupazioni meno specifiche, pene più altolocate: mi preoccupano gli stati d’animo degli altri, il loro futuro, e stavo cominciando a preoccuparmi anche per il senso di solitudine che avrebbe di certo sviluppato il pappagallo che avrei accettato di prendere. Fortunatamente ho avuto la visione di questo ipotetico pappagallo in gabbia che la notte vuole fare conversazione o che ripete le parolacce che ascolta in casa, ho immaginato un suo possibile risentimento nei miei confronti e ho detto una cosa semplice e risolutiva: no. Nessun pappagallo. Ho affrontato la delusione dei miei figli, ma sono sicura che quella delusione è comunque più accettabile dell’infelicità pappagallesca di cui stavo per farmi carico.
Ho però capito che non è tutta mia, solo mia questa paura. Non sono la sola a preoccuparsi, non vivo dentro un piccolo mondo spensierato fatto solo di desideri esauditi. Mia figlia è molto preoccupata per l’inizio della scuola, per questo ultimo anno di medie per il quale io mi sto preoccupando da almeno tre anni. Si sveglia la mattina, sorride, abbraccia il cane, si siede davanti alla tazza della colazione e smette di parlare, non beve neanche il latte, non mangia la torta. Che cos’hai, perché non hai fame? Mi risponde: ho paura. Ha paura di ricominciare e ha paura soprattutto di finire. Ha paura di vedere i suoi compagni che saranno altissimi dopo l’estate, e lei ancora piccola. Ha paura che l’anno prossimo sarà ancora più difficile. Io speravo che non se ne accorgesse, o che non gliene importasse, e naturalmente sbagliavo. Mi mostra su Whatsapp le foto della sue compagne al mare, lei è una bambina e loro sono ragazze, e dice ancora: ho paura.
Io allora le dico un sacco di cose su quanto sarà forte, dopo, su quanto sarà bello, dopo, e che avrà tutta la vita per scegliere i reggiseni o bruciarli o quello che vorrà. Le dico che quest’anno crescerà tantissimo anche perché la costringerò a fare nuoto.
Le dico un sacco di cose ma non funziona niente, anzi la notizia del nuoto peggiora decisamente la situazione, e allora le racconto che anche io alle medie avevo paura e nessuno si accorgeva della mia esistenza, le mie compagne erano di un altro pianeta e il pomeriggio stavo come in quella canzone di Antonello Venditti che non potrò mai scordare, e che anzi devo ascoltare anche adesso almeno una volta alla settimana: tristezza nera nello stomaco e in testa voglia di morire. Questa confessione le piace di più, anche se ignora chi sia Antonello Venditti e mi dice che lei piuttosto si sente come nella canzone di Coez: “E scusa se non parlo abbastanza ma ho una scuola di danza nello stomaco”. Però senza essere innamorata, aggiunge con quell’innocenza assoluta che mi provoca immediatamente una tenerezza straziante. Ha una scuola di danza nello stomaco per questa infanzia in cui vuole rimanere e che però tutti gli altri stanno cacciando via, dentro a corpi nuovi e nuovi pensieri. E io ho una scuola di danza nello stomaco per questa paura che vorrei cancellare e per questo tempo che vorrei fermare fino a quando lei sarà pronta, forte almeno quanto gli altri. Per queste scuole medie che sono evidentemente una maledizione da generazioni. E ho una scuola di danza nello stomaco perché volevo essere solo io a preoccuparmi e stare muta davanti al caffè la mattina (ma se c’è la torta, io comunque la mangio). Mi sembrava che così fosse tutto in equilibrio. Invece non ho più il diritto unico alla paura, e significa davvero che qualcosa è cambiato.