Il dolore è un movimento ingestibile
Torna con L'Innocente Marco Franzoso e il suo sguardo unico e profondo sull’infanzia. Matteo e il male
Il dolore è un movimento totalmente ingestibile, agita il sonno e la memoria, un sentimento che prende alla gola e sgorga sotto forma di urla, lacrime e gesti scomposti. Eppure proprio il dolore contiene nella sua informe forza la qualità rara – per un adulto in particolare – della tenerezza. Le lacrime, il male, il ricordo che sale improvviso non si possono programmare e quando arrivano al massimo si possono mascherare. Ed è proprio in questa forma di mascheramento, di vera e propria messa in scena che nel dolore l’adulto può ritrovare una forma bambinesca, finalmente un piacere nascosto, da non dire. Un rifugio che diventa a tratti una favola a tratti un’avventura.
Il dolore dunque è un’ombra che raccoglie la parte informe e oscura e ne restituisce il movimento come indica non a caso la fotografia in copertina dell’ultimo libro di Marco Franzoso, L’innocente (Mondadori). Homo ludens è il titolo della serie di scatti di cui fa parte la foto di Katrin Korfmann scelta per il romanzo di Franzoso. A guardare distrattamente sembrerebbero degli adulti che si muovono, che camminano lungo la piazza, ma sono tutti bambini e lo si capisce appena l’occhio si volge alle ombre, che rendono stilizzati i corpi esili e delicati a cui fanno riferimento. L’ombra come essenza dell’infanzia, anzi dell’infanzia vista dagli adulti ormai dimentichi e persi tra regole, scadenze e atteggiamenti sociali più o meno definiti e obbligatori.
Con L’innocente Franzoso non si occupa semplicemente e ancora una volta (e benissimo) di una storia d’infanzia come già nel suo libro più famoso, Il bambino indaco (Einaudi), ma va ancora più avanti e costruisce una storia dove il bambino ha attorno un mondo adulto schiacciato e a tal punto stupito della propria disperazione che solo in lui, in Matteo vede una possibile via d’uscita. Sia per la vicenda giudiziaria attorno a cui prende forma la narrazione, sia perché solo un bambino può davvero capire e dare forma a un dolore così devastante.
Matteo ha dodici anni, ha perso il padre in un incidente e si trova vittima di una vicenda di abusi e molestie da parte di un prete che è stato anche un suo importante riferimento formativo. Una storia tipica, quasi prevedibile, ma Franzoso sceglie di raccontarla dando la direzione narrativa a Matteo, a cui tutti chiedono cose, dalla madre al Giudice, alla Psicologa (rigorosamente in maiuscolo). Matteo guarda, ricorda e tenta di decifrare quanto sta avvenendo e soprattutto definisce e mette ordine nel dolore altrui come sanno fare solo i bambini, perché solo i figli, ogni volta sorprendentemente sanno sopportare dolori, per le madri come per i padri invece innominabili. E’ uno stato di grazia che nel lutto e nella disgrazia aiuta gli orfani a crescere, a rimanere saldi a se stessi e alla propria infanzia, proprio perché contenitore incredibile e inesauribile di storie, è per certi versi il dono estremo di una paternità che nel caso di Matteo si è interrotta e persa per un incidente sul lavoro. Un codice non compreso, una regola non rispettata e tutto si esaurisce e si chiude come logica vuole, nonostante ogni volta il destino appaia tremendamente illogico e irrazionale.
Matteo non reagisce al dolore, ma lo contiene, contiene le lacrime nascoste della madre e le domande pruriginose e a tratti persecutorie del Giudice e della Psicologa (che chiamano Matteo “il minore”), contiene la misura minima di un’età adulta che per darsi forma ha dimenticato molto di sé e del proprio mondo naturale fatto di errori, rincorse e scoperte disinteressate.
Di fronte alla morte non è il dolore a prendere il sopravvento e mentre il male si diluisce e si scioglie nel corpo in crescita di Matteo, è la curiosità a battersi e a vincere quale unica e vera necessità. La curiosità è il viaggio in macchina con la madre, è la forza che supera una verità giudiziaria incerta, è la forza esistenziale di un bambino che per farsi adulto non ha più bisogno di ricordare cosa è stato, ma di restare sempre se stesso.
Marco Franzoso scrive un libro delicato e duro allo stesso tempo e lo fa attorno a una figura, quella del figlio, troppo spesso rimossa dal mito del bambino, come dal rito dell’analisi sociale che della famiglia pensa solo all’istituzione e non alla sua fisicità, al suo odore si potrebbe dire. Matteo sente l’odore dell’avventura e del pericolo e stringe la mano alla madre e tiene per sé, soltanto per sé la paura.