Era mio fratello. Il libro di Daniel Pennac
Quando è morto Bernard, l'autore ha perso l’uso del corpo. La fragilità dei sopravvissuti
Oggi il destino dei morti è di occupare lo sfondo degli schermi. Vedo questa foto tutte le mattine quando accendo il computer e la ritrovo quando chiudo la mia pagina di Word: mio fratello e io seduti su un muretto”: nell’ultima pagina di Mio fratello (Feltrinelli, traduzione di Yasmina Melaouah), Daniel Pennac deposita un’immagine, due bambini seduti in fila, come in un trenino, uno biondo e uno bruno, uno più piccolo (Daniel, tre anni) e uno più grande (Bernard, otto), il grande a tenere ferma la spalla dell’altro, senza possesso ma con protezione, come a dire ehi questo è il mio fratellino, ha ancora molto da capire nella vita, ma io veglierò su di lui.
È una foto commovente che fa venir giù le lacrime fino a quel punto trattenute, e così lo scrittore francese si congeda da un libro delicato e intimo, in cui la storia di un legame viene interrotta per tre volte dalla morte: la prima volta il fratello grande si è ammazzato ma non ci è riuscito. È la moglie a raccontarlo a Daniel, la moglie che dorme in un’altra stanza (chissà da quanto tempo, si chiede lui, scoprendo all’improvviso quanto poco sappiamo, sempre, di chi amiamo: sospettava una solitudine coniugale ma non territoriale, chissà chi l’ha decisa, in che termini, e perché, e se sarà davvero soltanto perché lui russa terribilmente).
Bernard ha ingoiato delle pasticche, ma le pasticche sbagliate, credeva di aver preso dei sonniferi e invece erano degli euforizzanti: se la caverà (“non si pensa mai a quant’è imbarazzante essere scampati a un suicidio. C’è una cosa che la morte ha a che fare con la vita: devi farcela, costi quel che costi). Eccola, una delle tre volte in cui la morte entra in questa storia, ma, si diceva, ce ne sono altre due: la seconda è un’operazione alla prostata e un’emorragia anomala. Eppure, Bernard si salva anche in quel caso. Anni dopo, la terza, nella stessa banale circostanza: una clinica privata, una resezione, una setticemia. Questa volta Bernard muore davvero.
Allora, come sempre accade con la perdita di una persona cara, Daniel viene scaraventato in un’altra dimensione, quella del lutto spudorato e illimitato: “Nelle prime settimane seguite alla morte di mio fratello, ho perso l’uso del corpo. Mi sono lasciato andare. A Parigi ho rischiato più volte di finire sotto una macchina e mi sono fatto prendere a botte nella metropolitana, sono caduto da una scarpata, ho fatto un testacoda e sono finito con il muso dell’auto sopra un burrone”. Di tutto questo, in questo libro, avremmo voluto sapere di più, più dettagli, più scene: quel ferirsi e lasciarsi ferire, quell’abbandonarsi e lasciarsi andare è il comune denominatore della fragilità dei sopravvissuti, un percorso di cui non conserviamo memoria, di cui poi ci vergogniamo, eppure accade, accade a chiunque.
Ma Daniel Pennac sceglie un’altra strada letteraria: ripercorre invece il giorno, sedici mesi dopo la morte di Bernard, in cui ha deciso di portare in scena il testo di Melville, Bartleby lo scrivano. “La sua presenza mi mancava”, scrive, “Lui però veniva spesso a trovarmi. Con garbo, devo dire. Discreto, si intrufolava dentro di me”. Garbo e discrezione sono i puntelli usati per raccontare in prima persona questa storia dal titolo essenziale, evocativo. Il terzo puntello è il teatro: i capitoli sulla vita di Bernard, e sul dolore seguito alla sua scomparsa, si alternano con capitoli in corsivo che contengono gli appunti della messa in scena. Come Bartleby si ritira dal mondo, anche Bernard è sempre meno propenso alla vita sociale, sostiene di non voler aumentare l’entropia. Il personaggio di Melville diventa allora fantasma, alter ego e proiezione di Bernard.
Un personaggio letterario invece di un fratello vero. In teatro, mentre lettori e spettatori si interrogano sulle scelte di scena, Daniel scopre di non essere da solo: è in teatro con Bernard. Non è mai stato solo, mai. Anzi, forse è lì con tutti i suoi fratelli: erano quattro. Il primo era amato dalle donne. Il secondo “portò via con sé nell’Alzheimer gli abissi di una vita malinconica”. Il terzo era il preferito dalla madre. Il quarto è quello che racconta le storie.
E di questa storia, di cui sembra sapere tutto, anche quali tasti non toccare per non farsi troppo male, dice: “Non so niente di mio fratello morto, se non che gli ho voluto bene”. Sembra una frase scema, e mentre Pennac gioca a sparirci dentro sembra di sentire il bambino grande Bernard quella volta in cui tranquillizzò senza paura il bambino piccolo Daniel che disperato urlava “sono uno scemo! sono uno scemo! sono uno scemo!”: ma no, se tu fossi scemo io lo saprei.
Nadia Terranova è in libreria con “Addio fantasmi” (Einaudi Stile Libero)