Papà, adesso sei diventato mio figlio
L’Alfa Romeo verde pisello e quei quaderni pieni di me. Così mio padre ha salvato il mio passato
Conservo una memoria molto forte e ben definita della mia infanzia, colori, suoni, episodi, particolari mi tornano alla mente con insistenza. Una pletora di piccole cose mi guarda da lontano, non provo nostalgia, non fa parte del mio corredo genetico, anzi penso che retorica e nostalgia provochino danni non da poco. Nella mia piccola galleria degli oggetti che resistono alle stagioni c’è l’auto di mio padre, una voluttuosa Alfa Romeo modello 33, verde pisello; per me fu una navicella spaziale, e come un cosmonauta che si libra nello spazio la prima volta, il mio sguardo si perdeva sempre nei dettagli che mio padre da uomo preciso dislocava nell’abitacolo: dall’adesivo della località sciistica al Cristo benedicente sul cruscotto, al piccolo magnete raffigurante un aereo fino al block notes con penna allegata.
Le automobili degli altri non erano come la nostra, erano segnate da una sciatteria di fondo, invece la precisione maniacale di mio padre riempiva in modo unico tutti i suoi silenzi che diventavano un musica lenta del nostro dialogo. Lui guardava il mondo in silenzio ed annotava, era silenzioso ed espansivo quando le circostante lo consentivano. “Non si può sempre parlare, ogni tanto occorre anche ascoltare, sennò gli altri che parlano a fare?”, amava dire. Col tempo ho capito che il problema di certi rapporti sono proprio le parole, che non sono mai giuste, mai ponderate, mai sufficienti, nonostante i libri letti, le lettere scritte, i discorsi pronunciati: la fallibilità del discorso pubblico è pari a quella del discorso amoroso o privato.
Nella veloce malattia mio padre conservò un atteggiamento eroico e dopo i miei furori adolescenziali, la pazzia iconoclasta, la rescissione delle radici, le risse sfiorate e intraprese, la stanza della sua degenza al Celio divenne nuovamente il luogo dei nostri silenzi, del nostro vero ritrovarci, la navicella spaziale che adesso aveva la forma di un letto, di pasti dentro la plastica, di medicine, di microcitomi a piccole cellule. Mentre passo dopo passo le metastasi avanzavano noi vincevamo la nostra battaglia, ci riconoscevamo come due guerrieri antichi dalle ferite che ci eravamo inflitti. In mezzo a quel viaggio, un giorno decisi di caricarlo sulle spalle, l’inverno stava passando e la primavera concedeva i primi cieli tersi, gli dissi: “Facciamoci un giro” e lui mi rispose annuendo. Lo presi sottobraccio, quasi sulle spalle, le gambe reggevano poco, le braccia erano sottili, il suo sguardo affilato, guardava me e la mia fatica, si fidò per farsi perdonare di tutti i “no” detti senza senso, delle parole sgradevoli, delle omissioni e delle sue opere.
Quando morì sembrava più giovane dei suoi cinquantaquattro anni, sembrava un ragazzino a differenza mia che avevo triplicato i capelli bianchi. Alla fine della camera ardente arrivò una signora anziana, da sola, claudicante, si affacciò sulla bara e vide mio padre, compostamente si fece un segno di croce e mi disse: “Si faccia coraggio quando si perde un figlio sembra che il mondo finisca, ma poi non so perché continua”. Non feci in tempo a replicare, che la signora se ne andò. Le avrei voluto dire “signora si sbaglia, non è mio figlio è mio padre, non vede che sono più giovane di lui, non vede che sono un figlio!”.
Alla fine capii che la signora aveva ragione, perché da quando me lo caricai sulle spalle mio padre divenne mio figlio. Un figlio è qualcuno da accudire, figlio si diventa quando si passa da essere custoditi a custodire, quando si ha la forza di perdonare come un genitore che è pronto ad amarti nonostante ogni nefandezza. Essere padre del proprio padre è una dimensione non consolatoria ma di eterna attesa, di eterna veglia, di eterno pensarsi e perdonarsi. Poco prima di morire mio padre mi confidò di avere scritto, di aver annotato tutto, ogni viaggio, ogni luogo toccato, ogni malato accudito.
Fu così che una mattina qualche mese dopo la sua morte entrai in casa come un ladro e trafugai tutti i suoi diari. Non volevo che le sue parole di lì a poco si disperdessero in chissà quale pranzo di famiglia, in chissà quale ricostruzione poco veritiera del suo essere uomo, marito, padre e figlio. Mi ero ripromesso di non leggerne neanche una riga per rispetto e per riservatezza, ma una notte mi misi a frugare tra quei diari e trovai un quaderno più grande degli altri con sopra scritto “Massimiliano”. Lo aprii e trovai tutti gli articoli che avevo scritto nell’arco della mia giovane carriera. Mio padre era riuscito a salvare anche il mio di passato, quel che avevo disperso lui lo aveva raccolto e alla fine aveva annotato una frase di Pasolini: “La storia è la passione dei figli che vorrebbero capire i padri”. Aveva ragione lui, come sempre.
*Giornalista di Radio Radicale