(Foto Pixabay)

Guarda, la luna. Racconto della notte di Natale

Antonella Lattanzi

C’era il mare, la felicità. Poi vetri dappertutto e un solo pensiero: se sopravviviamo

Tornavamo a casa, a Blue Bay. Avevamo passato la giornata al mare, lungo la costa sud di Mauritius, l’isola più cosmopolita del mondo. Michael alla guida della nostra auto a noleggio, Leo accanto a lui. Io, Laura e sua figlia Anna, tre anni di riccioli biondi e felicità, incastrate l’una con l’altra dietro. C’era il sole, c’era il mare, e sulla strada del ritorno ridevamo per una foto di me e Leo abbracciati che, al posto del mare sconfinato di Mauritius, per un errore aveva uno sfondo nero come la notte. “Baci da Mauritius, la mando a mia madre”, avevo detto a Laura. Ridevamo là dietro senza riuscire a fermarci. Era il 24 dicembre. Arrivava la notte di Natale.

 

Ci eravamo strappate alla spiaggia e ai pesci poco prima del tramonto per arrivare a Blue Bay in tempo per la cena di Natale. Una statale a doppio senso ci separava da casa. Domani andiamo a vedere i delfini, speriamo di incontrare le balene. E’ Natale!, cantava a squarciagola la piccola Anna. Michael rallentava e si fermava per svoltare nella stradina che portava a casa, aspettava che le auto di fronte passassero. Mia madre, facevo in tempo a pensare, mi dispiace che non ci sia anche mia madre a passare questa splendida notte con noi.

 

E poi c’erano vetri dappertutto, Laura che urlava mia figlia!, Anna che piangeva, un botto come un’esplosione enorme e un buio nella testa, un dolore diffuso, totale, Michael e Laura che tentavano di estrarre la bambina dal seggiolino, una coppia di locali indiani che si fermava a soccorrerci, noi volati per metri nella carreggiata opposta – dio, se fosse arrivato qualcuno di fronte –, Blue Bay a un passo – eravamo quasi a casa –, Leo che scivolava dal finestrino e mi tirava fuori, io che crollavo a terra e la netta sensazione che il colpo fosse stato troppo forte, questo terrore consapevole di stare per morire.

 

La notte di Natale. A quasi diecimila chilometri da mia madre, mio padre, mia sorella, i miei nipoti che festeggiavano infreddoliti a Bari. Tu scendi dalle stelle. “To the doctor! The baby and the ladies!”, la coppia di locali ci infilava in un’altra macchina, “It’s vital!”. Eravamo scalze. La donna indiana stringeva Anna tra le braccia e Laura mi chiedeva, Dov’è il ciuccio. E poi c’era Giulio coniglio, il pupazzo preferito di Anna, non potevamo lasciarlo solo in mezzo alla carreggiata, tra le lamiere.

 

La coppia di indiani ci portava nel piccolo ospedale più vicino. Correvano impazziti nella loro macchina – Faster! –, io accanto a Laura con Anna tra le braccia, stavamo bene, stavamo male, stavamo morendo, il cielo era stellato e luccicante, traffico per la cena di natale, Faster!, io e Laura ci tenevamo la mano. Non potevamo piangere. C’era una bambina. C’era sua figlia. Anna si era calmata e stava buona nelle braccia di sua madre, succhiando il ciuccio. “Where’s the hospital”. “Il colpo è stato troppo forte”, mi diceva Laura. Ma non potevamo dirci che pensavamo non fosse possibile rimanere vive. Troppo forte. In quella macchina sconosciuta, in quel paese splendente, in quella notte di natale inondata di stelle, ci tenevamo strette per mano, pensavamo: “Se sopravviviamo”.

 

Mia madre, pensavo, mio padre. Sbarcavamo in un minuscolo ospedale di paese, una desolazione agghindata per Natale, infermiere in guardiola che guardavano la tv, letti e lettini – mamme e bambini, era così lampante – infilati uno dietro l’altro. What happened, A car crash, ci guardavano piene di paura quando raccontavamo, ci visitavano come potevano in quel posto troppo piccolo, God, dicevano, un’ambulanza vi porterà a Rose Belle, in the bigger hospital, Laura seduta su una panchina, fuori, nella notte di natale, con Anna tra le braccia che sembrava stare bene, Thank God, ripetevano, avete dell’acqua per favore, non potete bere non potete mangiare bisogna aspettare, io e Anna a piedi scalzi che giocavamo a contare le macchine bianche e le macchine rosse in attesa dell’ambulanza che non arrivava mai.

 

In attesa di sapere If your brain is bleeding, se il cervello sanguina. E io e Laura così vicine, a sorridere più che potevamo, per Anna, per noi, io e Laura un’unica persona. E poi, nell’ambulanza con una donna indiana che gemeva sulla barella sporca di sangue secco, mentre filavamo verso the bigger hospital, io e Laura ancora mano nella mano, stringevamo così forte, dov’eravamo, dove saremmo state, e Anna che diceva Che facciamo ora mamma? E poi, di colpo, attraverso il vetro dell’ambulanza, uno scampolo di cielo. Laura lo indicò ad Anna. “Guarda, Anna, la luna”.

 

Mi girai anch’io. E la vidi. La luna era lì. La luna c’era. Noi tre la guardammo, quella luna. E ci sentimmo pervadere, come per un contagio, da una marea calda di conforto. Pensando che era la stessa luna che vedevamo da bambine, la stessa luna che ci avevano mostrato per la prima volta le nostre madri. La stessa luna di sempre. Non potevamo piangere. Ci guardammo. Ci stringemmo più forte. Ci sorridemmo. La luna splendeva calda, lei non ci lasciava. Era la nostra notte di Natale.

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