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Mio figlio è acattolico, ma spero tanto nel contagio

Silvia Ranfagni

L'apparizione della tata ultrareligiosa mi era parsa buona, ma forse mio figlio finirà per cantare i cori della Roma la domenica

Il mio microbo frequenta una scuola multiculturale. Bianco-agnostico e di madre atea-depressa, passa l’ora di religione in una setta, gli Acattolici, i cui fedeli abitano spesso in aree remote della capitale, esposte a ogni influenza del pianeta. Se nelle loro case la speranza è pane quotidiano da masticare a lungo, nella nostra il microbo cresce ben istruito a credere solo nella vita terrena. “Chi è questa Signora?” ha chiesto un giorno indicando una Madonna, che ci guardava paziente da un tabernacolo. Come adulto sono addetta a dare informazioni recitando controllo. “Perché Giuseppe è marito di Maria ma non padre di Gesù?”, “Perché nella Trinità non c’è la Madonna?”.

 

A quel punto avrei voluto dire: perché al tempo non c’erano le quote rosa, ma sarebbero sorte altre questioni. “E chi è questo Spirito Santo che sta al posto suo?” mi chiedeva l’inquisitore. Nella Basilica di San Pietro, guardando la Pietà: “Maria è come le altre mamme di scuola?”. No, la donna che sorregge il corpo senza vita del figlio non è una generica madre, ma questo mi ha innescato l’immedesimazione con qualunque madre si trovi ad affrontare la tragedia. L’empatia è continuata qualche metro più avanti di fronte a una donna che, sorridente, sorreggeva con un solo braccio un bambinello di almeno quindici chili di peso: è stato allora che ho sentito male alla clavicola, in una sorta di osmosi femminile.

 

Peggio è stato identificarmi in una ragazzina, incinta senza una decisione consapevole, una che, tutto d’un botto, mai uscita di casa per andare non dico in discoteca, ma manco al fiume a lavare i panni, vede apparire un potente essere alato che le affida l’onere della maternità. Ai tempi del #metoo, lo Spirito Santo andrebbe in galera ho pensato. Certo non potevo mettere al corrente il frutto dei miei lombi che, desiderando tanto un figlio, mi aspettavo la luce senza ombre che si legge sul volto di una santa, sottomessa al volere altrui, seppur divino.

 

Ero in tali elucubrazioni quando dal fondo della basilica ci ha raggiunto un inno solenne, un coro maestoso che indicava l’inizio di una messa. Il microbo si è portato le mani al petto e con tono estatico ha detto: “Senti che bello, il coro della Roma”. Forse mio figlio sarà un futuro santificatore di domeniche in centri commerciali, ingoiando al posto di un’ostia uno scontrino salato? Il mio ristagno spirituale lo contagia. Non c’è in me un alto principio che gli indichi, della sua vita, il valore più profondo e la realtà del materialismo lo accoglierà senza nemmeno un rito – che ne so, un battesimo che preveda l’immersione del neonato in banconote benedette dal Fondo monetario internazionale.

 

In tale contesto l’apparizione di Angela mi era parsa buona. Eritrea e cattolicissima, la tata non vedeva l’ora di dare risposte e aveva molta più speranza di me. Purtroppo si spingeva oltre i miei obiettivi e gli faceva baciare Gesù Cristo in Croce o prometteva di battezzarlo per evitare il Limbo. “Guarda, Angela, che il Limbo non esiste. Il Papa dice che Dio salva tutti gli esseri umani”, le ho detto un giorno a brutto muso. Lei si è sorpresa di tale novità celeste, ma si è subito affidata al vecchio e saggio: “Però non si sa mai… “.

 

L’effetto di tanta fede non ha tardato a manifestarsi in mio figlio: “Io ci credo in Dio, mamma”, ha detto un giorno. “E anche Bassim, e Fathia… ma perché io lo posso mangiare, il maiale?”. Il sacro si era ormai insinuato in lui attraverso una qualche confusione. O almeno il desiderio di sacro, di qualcosa di inviolabile cui appellarsi per indirizzare la propria vita. In altre parole, mio figlio aspirava a essere come gli altri amici Acattolici, nutriti di speranza dai propri genitori. La confusione in lui si è fatta tangibile quando suo padre ha abbracciato il buddismo giapponese: a casa si recitano ora frasi in cinese, tradotte dal sanscrito, un mantra, che in effetti ha reso il mio compagno più felice e progettuale. L’insegnamento paterno è stato: il viaggio è nella conoscenza di sé stessi. I desideri sono il motore. Per accendere l’auto si recita il mantra.

 

Da allora il piccolo ha preso a sedersi accanto al padre per cantare in cinese rivolto verso una pergamena. “Sono un Catto-buddista, mamma”. La frase è arrivata in panetteria mentre stava proprio al mio numero. Approfondendo i princìpi del Catto-buddismo scopro un credo nella Fortuna e nella Sfortuna, ma anche in me stesso, da cui evinco che il Catto-buddismo consista nel raccomandarsi al Cielo, ma confidando anche nella propria capacità di reagire. Data la mia atarassia, spero di essere contagiata dai microbi molto presto. Sono piccoli portatori di speranza, che annaspa nel cercare il suo principio.

  

Silvia Ranfagni è una scrittrice e sceneggiatrice, in libreria con “Corpo a corpo” (e/o)

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