Storia di Manuel, il nuotatore, a Roma per “fare le cose per bene”
Non camminerà più. Ha rassicurato sua madre, ha insegnato a tutti come ci si salva
Manuel Bortuzzo aveva avuto la mononucleosi, l’anno scorso, e la stagione di nuoto era stata un disastro. Da Treviso allora si è trasferito a Ostia “per fare le cose per bene”. Per allenarsi con i più forti, chilometri e chilometri di vasche, “voglio andare alle Olimpiadi”, aveva detto in un’intervista, ridendo serio.
“Il nuoto è la sua vita”, ripeteva suo padre, l’unico della famiglia (quattro figli nuotatori) che in acqua annaspa, e che adesso resta saldo davanti a Manuel e davanti a tutti. “Mi sento mancare la parte di sotto”, gli ha detto Manuel quando si è svegliato. “E ci credo, con una pallottola nella spina dorsale”, gli ha risposto il padre. Ha dovuto dire a suo figlio che non camminerà più. Che forse allora questo sogno è infranto. Che andranno però in un centro specializzato. Ha dovuto dirgli tutto, gli ha anche mostrato le foto dei due quasi coetanei sciagurati che gli hanno sparato, e Manuel si ricordava tutto, e Manuel non li aveva mai conosciuti. Lui chiacchierava con la sua fidanzata davanti al tabaccaio, lei aveva il cappuccio sulla testa, alti, giovani e belli, perfino nel video della telecamera di sorveglianza sembrano allegri e pieni di speranza. Poi lui è a terra, e lei in ginocchio accanto a lui, lui che muove le braccia e che non muove le gambe, lei tira fuori il telefono dalla tasca e la vita è cambiata per sempre. Loro due a terra, gli altri due in fuga. Poi il motorino bruciato, l’ospedale, i medici, l’interrogatorio, i medici, la confessione, i medici i medici i medici. Il risveglio, la prigione.
Dov’è la salvezza in questa storia, se un ragazzo di diciannove anni, che nuota per inseguire il suo sogno, che nuota per costruire la sua vita, resterà paralizzato per sempre? Colpito “per errore”, scambiato per qualcun altro dentro la distruzione di altre vite giovani. Sua madre piangeva, in ospedale davanti a lui. Come si fa a non piangere, a non disperarsi. E lui le ha stretto le mani e le ha detto: “Mamma fatti coraggio, supereremo anche questa”, e non ha pianto. Ha detto che ce la farà, ha detto che vuole andare a casa, ha detto che comincerà un allenamento nuovo. Ha diciannove anni e non andrà alle Olimpiadi, non a quelle che immaginava, ma non è crollato. Quindi la salvezza c’è: è Manuel che si è già salvato da solo, con la sua famiglia.
Noi guardiamo e riguardiamo quel video, l’istante in cui Manuel muoveva le gambe e poi non le ha mosse più, pensiamo a quanto era tutto bellissimo fino a un minuto prima, pensiamo alla casualità maledetta, a quei due sullo scooter il sabato sera, Manuel invece non ci pensa già più, al passato. Guarda in avanti, al nuovo allenamento che farà, e lui e suo padre vedono la cosa importante: essere vivi, essere insieme. Manuel mangia e beve da solo, è vivo e respira e parla e fa coraggio a sua madre e per adesso non sente le gambe ma questo è solo l’inizio. Uscirà dall’ospedale e userà tutta questa forza per inseguire un sogno diverso. Un ragazzo così, un uomo così, non avrà mai la vita distrutta. Lui, che è già molto più salvo di quelli che gli hanno sparato “per sbaglio”, troverà un’altra strada, e poi un’altra ancora. Vincerà lo stesso, vincerà di più. Ha insegnato come ci si salva, e ha mostrato quanto è coraggioso un ragazzo di diciannove anni, venuto a Roma per “fare le cose per bene”. Suo padre ha detto: sapevo di avere un figlio straordinario. Adesso lo sanno tutti.