(Foto Pixabay)

Lo straziante giovane ritratto che ha fatto mia figlia di me

Michele Neri

Sono il padre più vecchio della classe, ma mia figlia mi ritrae come un giovane ballerino non per rassicurare me ma lei

L’altro giorno mia figlia, nove anni, mi regala l’ennesimo e delizioso (per me) e straziante (sempre per me) ritratto. Mi ha disegnato alto ed è la verità e sono magro: confermo. Il resto non corrisponde. Dimostrerò vent’anni, i capelli sono nerissimi. La mia figura è tratteggiata appena, la capigliatura invece ripassata cento volte finché non è diventata proprio corvina. Io ho i capelli sale e pepe, e gli anni si affannano a correre verso i sessanta. Quando glielo ricordo, lei risponde togliendomene un terzo. Perché, chiedo? “In quelle ore dormivi”. E così via. La bambina mi vede, cioè vuole a tutti i costi che io mi rassicuri che lei mi vede molto più giovane della realtà.

 

Avrà fatto i suoi conti e capito non soltanto la verità banale e cioè che sono il genitore più anziano della classe: avrà sentito che questo primato poco invidiabile e all’inizio preso da me con leggerezza o spavalderia – la superiore esperienza, l’indifferenza per piccole questioni che invece agitano i giovani padri – aveva cominciato a corrodermi qualche nervo. Ho provato di tutto perché non succedesse, ma è inevitabile. Ci pensa lei a rassicurarmi. E comunque sei il più alto.

 

Qui ha ragione. Nel rito pomeridiano dell’uscita da scuola, svetto in mezzo a padri più rosei ma più bassi. Da quando, su suggerimento del figlio grande ho anche comprato delle sneakers, ho guadagnato un altro centimetro. Mi sento all’altezza e mi guardo così in giro, tra mamme giovani e ciarliere cui non rivolgo sguardi, che invece riservo ai pochi maschi presenti, silenziosi e isolati, quasi dei totem in attesa di essere svegliati dalla campanella. Senza farmi accorgere, spero. A parte i nonni, su una decina di classi, c’è qualcuno della mia età o che la dimostra. Due o tre sembrano più vecchi. Mi compiaccio, misuro le rughe o i capelli, ascolto il loro respiro, è un confronto strano, come se mi trovassi da un rivenditore di automobili usate da acquistare o no.

 

Sono il più vecchio ma non mi sento il più stanco. Oppure sembro vecchio, ma ho 150 di colesterolo. Guarda com’è curvo quello. Passano gli anni e gli stessi pensieri oziosi mi scortano nelle varie vetrine dei padri: alle riunioni di classe, schierato a una pizzata, alle feste di compleanno, immerso negli acquari trafficati delle “water experience” dentro grandi cubi di cemento. Sarò un’auto tenuta bene? Tagliandi fatti? Alle elezioni del rappresentante di classe, sono io il candidato ideale: non per vincere, ma per fare da necessario – è la legge – sfidante. Sono l’avversario più affidabile e che perderà ogni votazione, ma con filosofia.

 

Finché, qualche settimana fa, mio padre è stato male. Ospedale, spavento generale, terapia intensiva, intervento; poi piano piano è andata meglio, lui ha riconquistato un letto in corsia e finalmente, dopo un mese, a casa. Una delle prime sere, aspettando di salire in reparto, mi son ritrovato seduto in auto con la sorella (figlia del secondo matrimonio di mio padre) a fianco. E’ scoppiata in lacrime. Ha quarant’anni e tra i singhiozzi ripeteva che, da quand’era piccola, non aveva fatto altro che temere questo momento; perché suo padre era il più anziano della classe (le cose che si ripetono in famiglia e di cui non ti accorgi subito, ma non potrai evitare di riconoscere). E di ciò aveva sempre sofferto. E non aveva mai detto nulla al papà o a nessuno ma ora, di fronte all’eventualità… e giù lacrime.

 

Mi colpivano come tanti spilli gelati. In quell’istante ho compreso il significato della parola fragilità. Tutto ha preso a vorticare e lui, la sorella, io, mia figlia ci davamo il cambio in un buio girotondo degli indifesi, dei friabili. Di chi ha paura. Pensavo di sapere, ma non avevo capito niente. Quei disegni in cui sembravo un giovane ballerino con dei piedi piccoli, le consolanti battute sulle ore passate a dormire e quindi da sottrarre al calendario, non erano per rassicurare me ma lei. Nei ritratti trovo ora soltanto il suo desiderio impossibile messo su carta. E così una tenerezza infinita e sciagurata – volevo essere io, l’unico ad aver paura – come la commozione più ottenebrante è calata su di me e credo che non mi abbandonerà.

 

Quand’ero ragazzo avevo letto il tristissimo “Fino all’estremo” di Joseph Conrad. L’eroismo smisurato dell’anziano capitano Whalley che, per mandare dei soldi alla figlia in difficoltà, continua a navigare, a governare il vecchio Sofala, benché stia diventando cieco, e debba fare attenzione per non essere scoperto dal secondo che aspetta soltanto di sottrargli il comando. Avrò avuto quindici anni, la novella mi emozionò tantissimo; e ovviamente non l’avevo capita.

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