Come fa il micio?
Sono stato il figlio unico assoluto, come in “Caro Diario”, e adesso so che cosa mi manca
Avrò avuto otto anni o poco meno e mio padre mi convocò con voce tuonante per mettere fine alla mia straziante richiesta di avere un fratello.
Mi ricordo la sua voce ferma nello spiegarmi i motivi della scelta di non farmi portare dalla cicogna o di non trovare sotto un cavolo, ipotesi più probabile abitando noi vicino a un parco a vocazione agricola, un fratellino. Mi diede delle spiegazioni poco lucide e poco comprensibili, e poi si lanciò in una accurata analisi costi-benefici, divenendo un misto tra Carlo Cottarelli in fase di spending review e Danilo Toninelli alle prese con la Tav, di cui la sintesi era: “Vuoi un fratello? Sappi che dovrai rinunciare alla metà di tutto quello che hai”.
L’idea di passare da dieci a cinque pacchetti di figurine a settimana, di dover dividere i miei giocattoli, di dover soprattutto dividere le attenzioni di tutta la mia famiglia e del mio adorato nonno mi fecero prendere la più sovranista delle decisioni: rimanere per sempre figlio unico, ma non un figlio unico qualunque bensì “il figlio unico” per antonomasia. Primo in ordine cronologico tra i nipoti, primo in ordine cronologico nel far sperimentare a madre, padre, zii, nonni e parenti di ogni grado e stirpe la ritrovata gioia della poesia di Natale, dei lavoretti a Pasqua, di frasi intelligenti a tavola dentro i discorsi degli adulti. Tutti correvano per fare con me qualcosa per la prima volta: dalle giostre, alle gite al mare, alla visione della partita allo stadio, alla presenza massiccia alle recite scolastiche. Tutti volevano toccare un lembo del mio grembiule da figlio unico. Ma come succede a tutte le rockstar arrivò la fase della risacca, e la nascita di ulteriori cugini spezzò quel mio regno incontrastato. In tutti c’era la consapevolezza che il primo figlio unico della casata avrebbe avuto modo di rifarsi più avanti, fino a quando in quinta ginnasio fui miseramente bocciato. Da lì iniziò un lento declino del suprematismo culturale del figlio unico, perché ammettere di essere fallibili non era tanto un problema mio, ma quanto un problema loro.
La bocciatura fu il primo fallimento e fu la prima porta di libertà. Ma quando sei figlio unico è tutto più duro, perché le speranze, le ansie e le paure che sono equamente redistribuite nelle famiglie numerose ti piovono tutte addosso. Questo le statistiche non lo dicono, gli studi del settore non parlano della depressione del figlio unico, della frustrazione del fallimento, le statistiche non parlano dei danni prodotti dell’avere come riferimento fisico solamente il mondo degli adulti perché, per quanto un figlio sia sempre contaminato da un contesto di coetanei, rimarrà per molto tempo proprietà intellettuale dei genitori e del tessuto familiare.
In pochi hanno saputo raccontare questo processo, il primo a mia memoria fu Nanni Moretti, nel 1993 in “Caro Diario”: approdando a Salina, alla ricerca disperata di un posto dove scrivere, la racconta così: “Da anni ormai Salina era dominata dai figli unici. Ogni famiglia… Ogni famiglia aveva un figlio, un figlio solamente, a cui veniva affidato il comando della situazione. Ormai era praticamente impossibile comunicare per telefono, perché nelle case gli apparecchi venivano subito intercettati dai bambini” (e chiedono agli adulti, curvi sopra un telefono pubblico, di fare il verso di tutti gli animali), “l’isola dei figli unici”, dove genitori iperprotettivi svegliavano alle tre di notte il figlio unico per affrontare insieme “l’ora del lupo, l’ora più dura”. Erano genitori ancora lontani da quesiti legati alla crossmedialità, alla lotta contro il virtuale, in un’Italia che aveva ancora un certo benessere del ceto medio, ma ho ritrovato le mie angosce esistenziali nella relazione del sociologo Roberto Volpi, “Il figlio unico e la società verticale” in cui viene ben espresso il concetto della rarefazione dei fratelli e le ricadute che questa estinzione ha sulle reti parentali, e su come negli ultimi decenni l’Italia abbia rovesciato il paradigma da società orizzontale di parentele in società verticale di genitori-figli (figlio). In altre parole: la solitudine che è stata seminata e generata fa da collante a una autoreferenzialità sociale, in cui l’esercito di figli unici cerca contatti e reti sui social, e i social diventano la grande camera di compensazione dei tanti silenzi, una sorta di comfort zone esistenziale, dove siamo tutti figli unici.
Oltre la teoria, però, oltre a tutti questi discorsi sensati e drammatici, c’è una cosa che mi è sempre mancata, nonostante l’egoismo, nonostante i giocattoli, nonostante tutto: la carezza di una sorella.