(Foto Pixabay)

Il mio incontro con Ian, figlio di Anna

Valentina Furlanetto

Una cosa è venuta proprio bene, alla mia generazione. No, non è la conquista del mondo

Non esiste incubo peggiore per un giornalista radiofonico di quando arriva un ospite che non sa parlare. Per questo quando Anna e suo figlio Ian, adottato in Cina sette anni fa, hanno messo piede nella radio per cui lavoro, ho stramaledetto l’ufficio stampa dell’ente di adozioni internazionali che me li aveva proposti. “Sono bravissimi – mi avevano scritto via mail – ti piaceranno un sacco”. Invece quando Ian ha aperto bocca è stato subito chiaro che lui aveva un problema di linguaggio e io avevo un problema con l’intervista. Magrolino, intimidito, telefonino sempre in mano come tutti gli adolescenti, Ian decisamente parlava a fatica, meccanicamente, arrancando, talvolta sospendendo le frasi a metà. Non un enorme problema, ma un problema enorme per l’ascolto radiofonico. A me veniva da piangere, avevo poche ore per chiudere il programma, mi era stato assegnato il tecnico audio più insofferente e ruvido dell’intero staff di tecnici, non avevo un piano B e incominciavo ad agitarmi. Il tecnico che stava in regia manifestava intanto il suo disappunto con i suoi soliti modi garbati e impercettibili: ha strabuzzato gli occhi, poi li ha roteati platealmente all’indietro, ha scosso la testa, a momenti la sbatteva sul tavolo.

 

Ian intanto parlava, le frasi faticose, le parole smozzicate. E sua madre Anna stava lì seduta, lo sguardo innamorato, non lo perdeva d’occhio un istante. Gli occhi di Anna dicevano: amore, stima, orgoglio. Pulsavano di questi sentimenti. Accarezzato da quello sguardo Ian diceva cose enormi con una semplicità e un candore disarmanti. Cose tipo: “Quando ho visto per la prima volta mia madre e mio padre ho pianto, ma non perché ero felice. No, ero terrorizzato. Perché avevo paura che anche loro, come quelli all’orfanotrofio, mi avrebbero picchiato”. E anche: “A volte le persone mi insultano. Mi dicono ‘cinese di m…’. Io non ci faccio caso perché è peggio se ci fai caso, gli dai soddisfazione”.

 

Dopo cinque minuti ho pensato sono una cretina, questo bambino ha un sacco di cose da dire e le dice pure bene, dopo dieci minuti ero affascinata, dopo venti avrei continuato ad ascoltarlo per ore. Il tecnico in regia, il mastino che quel giorno mi avevano assegnato, stava peggio di me: commosso, gli occhi rossi. Ian ci aveva messo in riga tutti. E lì ho pensato: mio Dio questo ragazzo è fatto per parlare a un microfono, ha evidenti difficoltà di linguaggio eppure sa raccontare benissimo, è un comunicatore nato. Le due cose sono un ossimoro eppure in lui convivevano felicemente. E convivevano perché lui si nutriva dello sguardo di sua madre che pulsava ritmicamente: ti amo, ti stimo, sono orgogliosa di te. E queste pulsazioni rimbalzavano nella stanza, la riempivano, la illuminavano. E Ian se ne nutriva e io pensavo a mio figlio, che a volte tartaglia o pronuncia male le parole, ma poi mi guarda e prende coraggio.

 

“Ci è voluto tempo perché si fidasse – diceva Anna – quando lo abbiamo conosciuto all’orfanotrofio e poi lo abbiamo portato con noi continuava a indicarci la bocca, facevamo le foto e lui teneva la bocca spalancata e la indicava”. Ian mostrava la sua bocca storta come a dire: lo vedete? E adesso che lo vedete: mi volete ancora? Guardate bene quello che sono e ditemi: mi volete ancora? Avete poche ore per cambiare idea e se lo fate mi ucciderete, ma se mi tenete dovete essere sicuri di quel che fate. E Anna e il papà di Ian come hanno reagito? “Abbiamo fatto anche noi le foto con la bocca aperta. Abbiamo un sacco di foto tutti e tre con la bocca spalancata. Fino a che si è tranquillizzato, ha capito che non importava, che lo amavamo”.

 

Ian indicava la bocca e Anna e il marito guardavano la luna, non il dito. Erano stati preparati dall’ente adozioni a guardare la luna. E la luna era bellissima quella sera. E quindi Ian parla, ride, fa battute, scherza con i compagni, studia, fa sport. E anche quando sua madre e suo padre non ci sono va in giro sicuro di sé, perché è scaldato anche da lontano dal loro sguardo. Lo stesso sguardo di amore e orgoglio che vediamo sulle foto al papà di Ramy, uno dei ragazzini del bus di San Donato Milanese. Lo stesso che ho notato nelle foto dei genitori di Greta, la ragazzina del Climate Strike con la sindrome di Asperger, che ha indirizzato la sua inclinazione verso una passione ecologica che i genitori assecondano.

  

E allora ho pensato che la mia generazione ha fallito, è chiaro, noi facevamo sciopero per non essere interrogati, non avremmo saputo chi chiamare in caso di attentato terroristico, non abbiamo difeso quasi niente, non abbiamo fatto nessuna rivoluzione, abbiamo ottenuto lavori precari, abbiamo vite precarie e sentimenti precari, siamo passati dall’adolescenza alla vecchiaia senza scardinare il potere, senza né cambiare il mondo né avere l’ardire di provarci. Nonostante tutto però in una cosa siamo riusciti, una cosa ci è venuta proprio bene, una cosa abbiamo fatto meglio dei nostri genitori: i nostri figli.

Di più su questi argomenti: