Tutta colpa mia
Il lungo viaggio di un padre all’inseguimento dei propri errori. Nell’arte e nella vita
Pensavo di essere l’unico padre che guidasse a lungo da solo e intanto pensasse ai propri fallimenti; senza che fosse una scelta, come se un navigatore immaginario, invece di dire adesso prosegui diritto, conoscendomi, mi chiedesse di affrontare un test sulla mia paternità ed elencare gli errori commessi con i figli, quelli contro e quelli a favore che poi si sono rivelati deleteri, i pochi emendabili, i tanti definitivi. E’ tutta colpa mia se…
Poi, con il passare del tempo ho immaginato l’esistenza di una vera e propria categoria, quella dei padri che, da soli sotto la pioggia incessante, per necessità improrogabili aggrappati e insonni al volante in una notte che non finisce, si sentissero accerchiati, invasi da emozioni insopprimibili, da domande – cosa ho fatto di male?– da tenui speranze: potrò ancora dare un senso alla nostra storia. Padri senza scusanti e assoluzione, guidano, s’interrogano e non si approvano, guidano e forse arriveranno in tempo a capire qualcosa.
A farmi compagnia, qualche anno fa, era stato un film imbattibile, per inoltrarsi nella testa rivoltata e nuda di un padre. Locke, in cui Tom Hardy interpreta un ingegnere che guida di notte da Birmingham a Londra, abbandonando un cantiere che lo attende per la più grande colata di calcestruzzo della storia europea; abbandonando la famiglia che lo aspetta a cena perché una donna, una collega fragile e solitaria e con cui ha avuto un unico rapporto sessuale, sta per partorire un figlio suo e che lui ha già deciso di non riconoscere. Nel viaggio riceve trentasei telefonate in cui tutti tentano di dissuaderlo. Lo minacciano, lo pregano. Nessuno gli dirà che è un bravo padre o un professionista serio: la sua fatica senza redenzione, questo nuovo “errore” per lui inevitabile, è stato per un po’ l’emblema di questa categoria di padri modesti o semplicemente confusi, così deboli da dover diventare forti nel momento meno propizio.
Ora è uscito un romanzo che va oltre, capace di spezzare il cuore del lettore in tanti fiocchi di neve gelida come quella da cui è avvolta la storia. L’ha scritta un grande irlandese, un genitore, in una lingua intelligente e spietata: David Park. Nella tormenta (non è autobiografico, anche se si stenta a crederlo) racconta la traversata in automobile di un padre di mezza età, un fotografo di matrimoni che, da una cittadina dell’Irlanda del nord va a recuperare il figlio che, proprio alla vigilia di Natale, si trova, ammalato e da solo, nel gelido dormitorio della sua università in Inghilterra. Il padre dovrà attraversare un paese immobilizzato da una forte nevicata, non può abbandonare Luke: il figlio non può restare in quel mondo estraneo quando a casa lo attendono mamma e figlia piccola con i biscotti a forma di agrifoglio. Non c’è viaggio più essenziale di portare a casa un figlio malato per Natale. Lui lo sa. Noi lo sappiamo.
Si chiama Tom e, appena partito, un navigatore invisibile comincia a parlargli cavando dalla sua memoria il filo unto e strappato dei sensi di colpa, lo sgomento del passato in cui un terzo figlio, quello geniale, l’adolescente senza paura o regole, si è perduto per sempre: ha abbandonato la casa famigliare senza fare ritorno.
Nei pensieri di Tom, che intanto calcola i minuti per prendere l’ultimo traghetto, segue i binari tracciati dai guidatori, osserva il vento alleggerire i rami di neve e riceve, come il padre di Locke, decine di telefonate, s’inserisce in modo sempre più ingombrante, dolorosa, la voce di Daniel, il figlio scomparso; le parole non dette, il ricordo delle ultime immagini che lui, fotografo, aveva scattato prima di non vederlo mai più. Se fossi stato un padre migliore… avrei trovato mio figlio quando c’era ancora tempo, lo avrei tirato fuori.
Non serve anticipare il finale della storia. E’ straordinario il coraggio, che è una precisione mostrata con le emozioni, con cui David Park ha immaginato la solitudine assoluta di Tom, il suo ostinarsi a trovare quel momento in cui se avesse fatto altro la storia poteva ancora essere raccontata in un modo diverso. E la paura, davanti a un compito semplice – la neve cade sempre più piano – di fallire ancora; il desiderio di deporre tutte le cose brutte fatte insieme ai difetti che aveva lasciato crescere, sotto una “pura tomba di neve bianca”, come quella che lo circonda. Sentirsi dire una volta dalla moglie: sei stato bravissimo e sono fiera di te. L’aver bisogno di una voce che indichi dove andare.
Tom pensa ai versi di Robert Frost.
I boschi sono bui, profondi e belli da vedere,
e io ho promesse da mantenere,
E chilometri da percorrere prima di dormire.
E chilometri da percorrere prima di dormire.