La tritticata
Bambina d’Abruzzo, terra di crolli e di miracoli, dove la vita riaffiora nei “giorni robusti”
Chiarina ha diciotto anni, ma sembra ancora una ragazzina. Ha due trecce sulle spalle, i capelli raccolti e gli occhi verdi; indossa uno zenàle (un grembiule) chiaro su cui si intravedono macchie di mosto ed è in ginocchio con il rosario in mano. Assuntina, l’amica di famiglia, interrompe l’ora di preghiera con una frase che segnerà per sempre il suo destino e quello di molti altri: “Gino è ’nu brav’ommene, tiene intenzioni serie”. La giovane non sa ancora che è stata scelta per riparare un danno (lui ha messo incinta un’altra) e dargli un erede “certificato”; non sa ancora nulla della vita né può saperlo, così come degli effetti della guerra che sta per arrivare, ma sa soltanto che non vuole fare la fine di sua sorella Rosalia, “zitella ingobbita”, e risponde subito un “va bene” senza pensarci. C’è poi una bambina, Adua, che ha il nome di una città “simbolo del posto al sole” e che, negli stessi anni (siamo poco dopo il 1940), subisce come molti l’irruzione dei tedeschi e quegli ordini impartiti in una lingua incomprensibile, assieme al freddo e al dolore per la perdita dei genitori, alla fuga e all’innamoramento per un soldato che non rivedrà mai più.
Ci sono una regione, l’Abruzzo, e un paese “a forma di cucchiaio”, Valle San Giovanni in provincia di Teramo, a far da sfondo a storie di una civiltà contadina con le sue emozioni, paure, gioie, dolori, sacrifici, incomprensioni, litigi e riappacificazioni. C’è una piccola comunità dove si deve stare attenti a non lasciare acceso fino a tardi il lume della propria casa o a non girare dopo le nove di sera per non dar luogo a chiacchiere il giorno dopo, ovviamente in chiesa, un luogo che è un punto di riferimento, oltre che sfogo e passatempo.
C’è persino il silenzio che è “un’estrema forma di pudore”, soprattutto nella convivenza con quel “peccato grosso” compiuto nel nome della famiglia, un’idea astratta quanto indispensabile. Ci sono amicizie e cattiverie, per non parlare dell’ammidia (l’invidia) che fa credere cose inverosimili, dai morti “che non se ne vanno mai” agli affetti “che hanno bisogno del tempo giusto”. Ci sono bambini e bambine che crescono troppo in fretta, tra affetti e considerazioni discutibili oggi, ma non allora; ci sono donne e uomini impegnati in lavori diversi, ma necessari per l’equilibrio stabilito. C’è il dialetto abruzzese che è “una lingua che paralizza le frasi come un lago di parole ghiacciato”; ci sono i profumi buoni e cattivi di quella terra ruvida e dura come la mentalità di chi la abita; c’è san Gabriele adorato dai suoi fedeli (Sagabriè) pur non essendo abruzzese, in un dialetto fatto di sottrazioni di vocali e bizzarre interiezioni, da Oh commà a Gesummaria (impossibile non pensare a “L’Arminuta” di Donatella Di Pietrantonio). C’è il miracolo che è “una trattazione”, mentre il lutto è “un approdo”, entrambi però “morali”: il secondo è un rifugio di rispettabilità facile, una maniera per le donne di gestire il potere degli addobbi in chiesa, la scelta dei canti della domenica, il calendario delle messe per i morti o il cucinare per il prete. Ci sono riti quotidiani e stagionali come il fare la pummadora, i pomodori in bottiglia, “una comunione mistica tra elette” in cui non sono ammesse defezioni come novizie. C’è la tritticata, il terremoto che ha stravolto quella terra dagli inizi del Novecento agli anni più recenti – L’Aquila in primis – una presenza costante con un “rumore umano” che infonde un potere segreto nelle cose facendole retrocedere a una stagione primitiva.
“Se si arriva a non voler più vivere nella propria casa, non è per ordinaria paura delle scosse notturne, ma è per la perdita di un senso di appartenenza”, scrive Roberta Scorranese in “Portami dove sei nata” (Bompiani), dove il passato va a braccetto col presente in pagine dense di sentimento: al centro del tutto, c’è il suo posto delle fragole, un “personalissimo regno delle ombre felici”.
Dopo la morte del padre, a fatica, Roberta Scorranese, giornalista del Corriere della Sera, cerca oggi di riportarlo alla luce ricostruendo i “giorni del miele”, la sua infanzia. Dove sono i suoi cari, dov’è Bettina la sartora, dov’è Celestina, la donna condannata al silenzio, dove sono Zi’Ntonio, Marescià, Lù Re, Zia Marietta, Santina o Minichetta, il codice non scritto delle fragili leggi della tribù degli Scorranese? Dove è andato tutto questo? – si chiede lei che ha ascoltato storie di miracoli che oggi non rivede più, conservando però l’intima certezza di appartenere a un mondo lasciato da più di vent’anni. A salvarla sono i ricordi che le hanno lasciato, anche quelli dei “giorni robusti” che non potranno più tornare, ma che portano ancora a immaginare, perché è lì che affiora la nostra vita più intima.