Meglio che non ci facciamo vedere troppo in giro insieme, mamma
Gli anni rotolano l’uno sull’altro a una velocità folle, ma io ho con me i momenti assoluti
Ieri mia figlia ha compiuto tredici anni, mi ha chiesto di farle una giustificazione in Scienze, mi ha chiesto di regalarle il mio vecchio computer, mi ha chiesto di comprarle dei pantaloni molto strappati e una cintura con le borchie. Anche in casa si tiene addosso un giubbotto jeans con il pelo dentro (non hai caldo?, nessuna risposta. Non hai caldo?, nessuna risposta. Allora prendo un megafono: non hai caldo?, e lei mi guarda da quell’altro pianeta su cui si trova e dice solo: no perché?, e non vuole ascoltare la risposta). Non ha voluto nessuna foto con me mentre spegne le candeline, e non vuole mai taggarmi nelle sue storie di Instagram. Almeno metti questa foto di noi due, le ho chiesto, tanto fra ventiquattr’ore scompare. Non possiamo farci vedere troppo in giro insieme, ha risposto, e si è chiusa il giubbotto fino all’ultimo bottone.
A me va benissimo, lo trovo giusto, e ho deciso di coltivare intensamente la mia invisibilità. In questa strana primavera sento che gli anni rotolano l’uno sull’altro a una velocità folle, e che la vita si diluisce e continuerà a diluirsi, e io sarò per i miei figli sempre più intaggabile: vorrei solo scomparire anche da tutte le chat dei genitori, in tempo per godermi la potenza della liberazione e l’immenso sollievo.
Poi però c’è il fatto dei tredici anni. Tredici anni fa, nel pieno della mia non invisibilità, a un certo punto della sera ho sentito delle fitte alla pancia e ho pensato che non fosse niente. Tredici anni fa ho pensato, mentre le fitte si intensificavano e non riuscivo più a leggere: che strano avere queste fitte, sembra quasi che io stia per partorire. In effetti era il giorno esatto in cui secondo il calendario io avrei dovuto partorire, ma era anche il tempo in cui i pensieri scorrevano lenti come gli anni, e c’era la possibilità di farsi sorprendere da tutto: avevo una pancia enorme ma altre cose per la testa, o forse non immaginavo che sarebbe accaduto davvero e non ascoltavo nessuno. Continuavo solo ad andare al cinema ogni giorno, perché mi dicevano che poi non ci sarei potuta andare mai più per quasi tutta la vita. Così mi sono stupita tantissimo quando sono successe esattamente tutte le cose che sapevo sarebbero successe, e ho continuato a stupirmi anche quando in sala parto mi hanno detto: ci siamo, vai. Ma come ci siamo? Di già? E dove vado? Ed è stato quello, l’attimo in cui ho detto: vado, il momento esatto in cui la vita ha cominciato a correre e non si è fermata più.
Tranne che per un minuto o due o tre, i minuti in cui l’ostetrica mi ha lasciato questa bambina sulla pancia, questa bambina che adesso ha tredici anni e si tiene sempre addosso un giubbotto foderato di pelo, a maggio. Questa bambina che era nuda e sporca e rosa e piangeva forte, e appena me l’hanno appoggiata addosso ha smesso di piangere. E io l’ho guardata, l’ho accarezzata, le ho sorriso, ma soprattutto lei mi ha guardato, sono sicura che mi abbia guardato e abbia capito chi ero: aveva gli occhi di luna, era identica a suo padre ma con un naso diverso perché io avevo fatto dei riti intensi di preghiera ogni giorno per nove mesi, e quello in cui io e lei ci siamo guardate è stato il momento assoluto della mia vita: quel momento io l’ho riconosciuto, non è volato via. Non ero ancora invisibile, ma ero diventata capace di concentrarmi. Così anche tre anni dopo, quando di nuovo mi sono venute quelle fitte e almeno le ho riconosciute, ho aspettato il momento in cui mi hanno messo il bambino rosa sulla pancia per guardarlo bene, per ricordarmi tutto (per il naso avevo fatto dei riti un po’ meno intensi, perché pensavo: tanto è un maschio, ma di nuovo era identico a suo padre tranne il naso, e mi guardava con gli occhi di luna).
Quindi adesso non mi importa se questa tredicenne non vuole farsi fotografare con me e non vuole farsi vedere in giro con me, perché io comunque possiedo quei minuti assoluti in cui ci siamo guardate, madre e figlia, prima di cominciare a correre. Lei verso tutto, io verso qualcosa.