Il dolore degli altri
Con quattro figli nel lager in Libia, dove per salvarti devi stare in silenzio e non reagire
Il dolore degli altri fa sempre un suono stridulo nelle coscienze di chi lo ascolta. Dopo mesi e mesi passati a disperarci per persone come noi, appese dentro un gommone, sospese dentro una barca in mezzo al Mediterraneo, persone che non conosciamo, di cui non sappiamo i nomi, sappiamo quasi a memoria le dinamiche di quelle esistenze, ma non conosciamo quasi mai le storie dei singoli esseri umani. Sono sempre diverse, così come ogni persona è diversa e unica. Assieme al collega Andrea Billau, per Radio Radicale noi andiamo a raccogliere queste storie, forse vogliamo costruire una città abitata di vite che non tutti hanno voglia di vedere. Dobbiamo dare un posto a queste persone anche nei racconti. E per quanto possiamo conoscere le rotte, le strade, le violenze, quando ti ritrovi davanti una famiglia di quattro persone che è partita dal Darfur ed è arrivata in Italia, lo sguardo si posa sui particolari più che sulla geopolitica dei flussi.
Appena si siede davanti a me noto che Mohamed ha un viso ruvido, una barba incolta e tante cicatrici sul viso, porta male gli anni che ha, ma come potrebbe essere altrimenti. Fatima, sua moglie, è visibilmente più giovane ed è bellissima. I suoi lineamenti dolci, incastonati in uno scialle bianco che si avvolge intorno alla testa, mettono ancora più in risalto la sua pelle scura e delicata. Mohamed e Fatima si amano e insieme sono scappati da un inferno che si chiama Sud Sudan, raso al suolo dal conflitto del Darfur.
Sono arrivati in Italia qualche settimana fa con un corridoio umanitario e ora se ne stanno a Rocca di Papa a “Mondo migliore”, un centro che guarda il lago di Castel Gandolfo, un posto dove si ricuce la vita. Appena incontro questa coppia noto i loro quattro figli, minuti e felicissimi, del tutto uguali a qualsiasi bambino italiano pieno di gioia e di energia. Per un momento penso che non sia possibile che abbiano vissuto la stessa traversata dei genitori e mi convinco che li abbiano messi al mondo dopo esser arrivati qui. Mi sembrano troppo felici per aver percorso le rotte dei trafficanti di uomini ed essere approdati in Libia e invece il padre mi racconta che sono partiti tutti e quattro, hanno attraversato il deserto e hanno provato per ben due volte ad arrivare in Italia: “Quando siamo arrivati a Tripoli abbiamo dato dei soldi a uno scafista perché ci portasse via da quell’inferno, la prima volta siamo stati riportati indietro dalla Guardia costiera libica che ci ha solo guidato dentro il porto, la seconda invece dopo averci maltrattato ci ha chiuso dentro un container e da lì siamo stati portati in un campo di concentramento”.
Se piangi resti senza cibo per giorni
Lui mi dice a denti stretti per la rabbia che i figli sono stati presi a calci dalla Guardia costiera e che sono rimasti sporchi di nafta e sabbia per molti giorni. “Avrei dovuto difenderli di più, la mia rabbia nel vederli trattati così era tanta, ma cosa potevo fare?”. Una volta arrivati nel lager, Mohamed e Fatima vengono divisi. Da una parte lui, e dall’altra lei con i figli. Qua il suo volto si fa cupo e mi dice che in quel momento ha pensato che non li avrebbe rivisti mai più, anche perché “la Libia è razzista e piena di trafficanti di organi. A quel pensiero ho chiesto a Dio di farmi morire”. Fatima assiste al racconto del marito con sguardo serio, tiene al petto, Giusi, la più piccola, mentre parliamo la allatta. Vedere il corpo esile, piccolo di Giusi e raffigurarmela dentro un lager mi provoca un enorme dolore. Fatima racconta che il cibo dentro i lager era pochissimo e che se qualche bambino si lamentava veniva punito togliendogli per giorni interi quel poco riso che elargivano i carcerieri: affamavano i bambini.
“Un giorno ho pensato che tutto sarebbe finito male, perché al campo maschile c’era stata una rivolta di prigionieri, chiedevano acqua e cibo e avevano sfondato un cancello. Ho visto partire dal nostro campo camionette che si sono lanciate contro i dimostranti – mi dice con le mani che adesso tremano – ho chiesto se Mohamed era vivo ma nessuno sapeva rispondermi. Sono stati giorni durissimi, con i bambini che chiedevano del padre”. Mohamed interrompe il racconto di Fatima, vuole specificare che il suo rimanere silenzioso, giudizioso non era perché non aveva coraggio ma perché aveva capito che solo col silenzio ci si salva.
“Io sono fuggito per loro, per dargli un futuro diverso perché il futuro dalle nostre parti è per sottrazione. Si fanno tanti figli per sperare che almeno qualcuno sopravviva, a me ne sono sopravvissuti quattro”, mi dice Mohamed. “Il mio dovere adesso è farli essere felici qui e raccontare di tutti quei padri che non ce l’hanno fatta, di tutte quelle madri che si sono prostituite per dare un tozzo di pane in più ai figli. Io credo che loro saranno figli felici, credo che un giorno, quando saremo invecchiati, anche noi potremo cominciare a essere felici”.