Non sei felice?
Ho creato il dolore post partum di Polina, poi io ho partorito davvero e lei ha gioito per me
Se ti nasce un bambino non puoi che essere felice. Te lo ripetono tutti, dagli amici ai parenti: Non sei felice? Una domanda retorica. Perché ovunque, nelle pubblicità soprattutto, ci sono mamme che ridono, che fanno il bagnetto, cambiano pannolini e spalmano creme lenitive come se fosse la cosa più naturale del mondo. E felice, appunto.
Invece non è così. Almeno non sempre.
Quando conosci una mamma depressa, e trovi nei suoi occhi quel senso di inadeguatezza e sopraffazione che solo un figlio appena nato è in grado di scatenarti, gli occhi di quella donna non li dimentichi più.
Un figlio può fare piazza pulita dei tuoi sogni e metterti in ginocchio. Un figlio può anche portarti via la vita stessa, ma guai a dirlo a voce alta. Perché un figlio, agli occhi di tutti, è un dono di felicità.
A me non è successo, di cadere in quel tipo di depressione. Quando ho preso in braccio il mio primogenito la prima volta, l’ho riconosciuto subito come parte di me. L’ho guardato in faccia e aveva tutto al posto giusto. Era vivo, sano. Mio. Quanto bastava per farmi sentire felice. Anche se la paura che qualcosa, in quell’ingranaggio di felicità, s’inceppasse era sempre in agguato.
Quando scrivo e invento storie di madri, lo faccio anche per esorcizzare le mie paure. Polina, uno dei personaggi di “Nel silenzio delle nostre parole”, il mio ultimo romanzo, ne è l’esempio più emblematico. E’ una ballerina di danza classica, che ha lavorato con tenacia per il raggiungimento dei suoi obiettivi, e proprio a un passo dalla svolta decisiva della sua carriera, è rimasta incinta. Il padre del bambino è il direttore del teatro che lei aveva sedotto per ottenere la parte che le avrebbe dovuto cambiare la vita, e il figlio che insieme hanno concepito è il tradimento che Polina sente di aver fatto all’amore, per assecondare l’ambizione. Nella storia che ho messo in scena la conosciamo già mamma. Janis, il neonato che piange ininterrottamente fino all’alba, Polina lo considera un intruso. Da quando è comparso nella sua vita, lei è ingrassata e ha smesso di ballare. Si sente una conchiglia vuota, sepolta sotto la sabbia. A causa del mollusco che fino a tre mesi prima l’abitava – e che ora si esprime attraverso vagiti incomprensibili – la sua vita è a un bivio. Vorrebbe farla finita, deve solo trovare il coraggio.
Nei mesi dedicati alla stesura del romanzo, mentre la mia mente partoriva Polina, il mio corpo si accingeva a un altro tipo di parto: quello del mio secondo figlio. Segretamente nutrivo la paura di potermi ritrovare come lei. Mentre lievitavo e ingurgitavo cibo (per poi rigurgitarlo), chiedendomi se sarei stata all’altezza del compito, Polina, con le sue fragilità, mi teneva compagnia. Lei, ragazza dell’est, con tutto il suo carico di fallimenti da riscattare, è stata per un po’ di tempo un’altra versione di me. Di certo una versione spaventosa del mio post partum. La descrivevo in ogni dettaglio, dai sensi di colpa all’incapacità di reagire, dalla rabbia che covava nei confronti del padre del bambino (addirittura, da dopo la nascita, più giovane e bello) al senso di fallimento che era chiamata ad attraversare. La sua solitudine aveva la forma delle ballerine che non riusciva più a indossare, dei chili presi e all’apparenza impossibili da buttar giù, delle giunture doloranti e dei capelli sempre più radi. Certe mattine che eravamo sole, io e lei, a fronteggiarci davanti al computer, la ritrovavo con i capelli sporchi e la tuta intrisa di sudore che guardava il piccolo Janis chiedendosi chi fosse. I neonati cambiano faccia ogni giorno e Polina, in quei lineamenti ancora così sfocati e imprecisi, non riusciva a trovar nulla che appartenesse anche a lei. Ho fronteggiato la depressione di Polina come fosse un po’ anche la mia. Ho misurato tutti i suoi pensieri, anche quelli più asfittici, nelle mie paure. Potrei considerarla una forma, anche se bizzarra, di terapia preventiva. Sentivo di dover arrivare all’appuntamento più importante della mia vita conscia di aver messo a fuoco ogni possibilità. E’ stato come se, in un certo senso, io e il mio personaggio ci fossimo prese per mano. Siamo state sfatte, grasse e arrese, insieme. Ci siamo ritrovate inermi sopra un cornicione e abbiamo frugato nei nostri istinti più torbidi in cerca dell’unico che ci avrebbe salvate. Poi mi sono congedata da lei un attimo prima di raggiungere la sala parto. Quando mi hanno messo in braccio mio figlio, piangevo. E ancora una volta di felicità. Aveva tutto al posto giusto. Era vivo, sano. Mio. Anche se nessuno avrebbe potuto vederli, c’erano anche gli occhi di Polina in quella sala, posati su di noi. Lo sguardo benevolo di chi sa gioire e soffrire per vite che non sono la sua, per dirla come la direbbe Carrére. Per dirla come mi sento di averla vissuta anch’io.
Domenica 16 giugno Simona Sparaco sarà al Festival A tutto volume alle ore 20 al Giardino Ibleo con il suo ultimo romanzo “Nel silenzio delle nostre parole” (vincitore del premio Dea Planeta).