Ma parli di me?
La tua infanzia, la mia fatica. Starsi addosso a vicenda, odiarsi e amarsi. Quando arrivi, chiama
All’inizio a mia figlia non ho detto niente. Ho ammesso che sì, stavo lavorando a un nuovo romanzo, ma non potevo essere più precisa. Scaramanzia, ho mentito con convinzione. Lo sai come sono gli scrittori, non rivelano particolari, non confermano e non negano, non possono esporsi, metti mai che la Musa si risenta e se ne vada sdegnata. Devo aver anche fatto un sorriso complice, come a dire Tu mi capisci.
Lei mi ha guardata molto perplessa. Stavo nascondendo qualcosa, era fin troppo chiaro. Sa benissimo che quando ho tra le mani una storia da raccontare, una novità entusiasmante, niente e nessuno mi può fermare, nemmeno un giuramento fatto con il sangue, figuriamoci la scaramanzia.
“Non puoi proprio dirmi niente?”, ha insistito. Non potevo. E più andavo avanti, più le pagine si accumulavano, più diventava difficile.
Stavo raccontando di lei, di noi, della sua infanzia e della mia fatica, delle nostre discussioni, delle porte sbattute e della sua partenza e temevo la sua reazione.
Che effetto le avrebbe fatto scoprire nero su bianco che la sua nascita mi aveva gettata nello sconforto, la sua infanzia mi aveva portato via il sonno, il lavoro e la libertà e la sua adolescenza era poco meno di una sfinente guerra quotidiana?
Ci aspetta che le madri dicano certe cose e non altre. Un figlio se l’aspetta. Si aspetta di sentire che il giorno in cui è nato è stato il più bello. Che da quel giorno in poi ogni minuto passato con lui è un dono del cielo. Che niente può eguagliare e nemmeno può essere messo a confronto. Che ogni rinuncia o sacrificio è ripagato cento volte da un suo semplice sorriso.
Il che è assolutamente vero e allo stesso tempo non lo è.
E’ vero che il giorno in cui mia figlia è nata resta indimenticabile, ma quando mi chiede qual è stata la sua prima parola e dove e quando ha cominciato a camminare annaspo in evidente difficoltà, devo ammettere che non mi ricordo niente e non la prende mai bene.
E’ assolutamente vero che se avessi solo poche ore prima di una catastrofe naturale vorrei passarle con lei e certamente è lei che metterei in salvo a costo della mia vita, ma in un giorno qualunque, non funestato da terremoti o tsunami, ci sono almeno una decina di impegni più pressanti per non dire più interessanti del suo desiderio di raccontarmi la cosa pazzesca che le è successa (quasi sempre si tratta di qualcuno che ha detto che forse ha sentito che quel tipo fighissimo che prima stava con una sua amica che adesso non è più sua amica e comunque non stanno più insieme si è lasciato scappare che è molto carina, ma quasi mai c’è la certezza assoluta che l’abbia detto o che si riferisse proprio a lei; comunque è pazzesco). Ed è vero che ora studia all’estero, non la vedo per mesi e mi manca moltissimo, ma passo anche giornate intere senza pensare a lei, a dov’è, a cosa fa, a quando torna, ed è un sollievo.
“Il tuo libro parla di me?” mi ha chiesto un giorno a brutto muso, già un po’ incazzata a scopo preventivo. Ho farfugliato. Sì, un po’, alla lontana, è vagamente ispirato. E comunque chi te l’ha detto?
Chi avesse lasciato trapelare l’informazione non l’ho mai scoperto, ma da quel giorno la sua ansia di leggerlo è stata sempre più pressante e le mie scuse sempre più patetiche: devo fare un’ultima revisione, sto cambiando delle cose, quando vieni a Roma per le vacanze te lo stampo che leggerlo sul computer non è la stessa cosa e via balbettando. Finché è successo. E’ tornata per le vacanze e, senza chiedermi niente, ha preso il plico stampato e rilegato dalla mia scrivania e se l’è portato in camera. Qualche giorno dopo è apparsa nella mia casella di posta una mail e ho avuto un tuffo al cuore: lei aveva letto, ora toccava a me.
Ero pronta a minacce di denuncia per violazione della privacy, pianti disperati, discussioni e altre porte sbattute e invece era una mail bellissima. Diceva che leggendo quello che avevo scritto aveva visto la sua vita e il nostro rapporto da un altro punto di vista. Aveva capito che non ero solo io a starle troppo addosso, ma ci stavamo addosso a vicenda. Ed era inaspettatamente confortante sapere di non essere lei il centro del mio mondo, perché la responsabilità di essere il centro del mondo di qualcuno è faticosa e fa sentire costantemente inadeguati. Che anche lei mi amava moltissimo e allo stesso tempo mi odiava moltissimo e si sentiva in colpa per questo, ma se potevamo dircelo era tutto più semplice e comunque ci volevamo un bene da morire. Era una dichiarazione d’amore e, allo stesso tempo, di maturità e indipendenza, un addio ai nostri giorni io e lei sole contro il mondo. Poi c’era un p.s.: quando ci vediamo stasera ti devo raccontare una cosa pazzesca.
E’ appena uscito in libreria l'ultimo romanzo di Anna Mittone, “Quando arrivi, chiama” (Mondadori)