Le vite di mio padre: Steve Abbott
Un uomo che ha molto amato “tutta l’umanità, non solo mezza”, raccontato da sua figlia, Alysia Abbott
Il primo ricordo che ha di lui, quello che non riesce né può dimenticare, è al volante di un Maggiolino Volkswagen del 1972. Lei, Alysia Abbott, era una bambina di cinque anni e suo padre, da poco vedovo, teneva tra le prime due dita della mano una sigaretta accesa, guidando una macchina che sembrava un giocattolo, l’oggetto del desiderio di molti bambini grazie alla Disney e al suo “Herbie”.
Quella cenere lunga e grigia che poteva essere semplicemente scrollata, veniva invece lasciata cadere alla prima folata di vento, nel momento esatto in cui veniva ripetuto un nome – Sausalito – che è poi il posto dove stavano andando, una cittadina nel nord-ovest californiano, un tempo villaggio di pescatori, poi cantiere navale durante la Seconda guerra mondiale, oggi ambita meta turistica. Quando ripensa a quell’uomo, oggi che è adulta e che lui non c’è più, ne ricorda l’innocenza, la dolcezza, i modi gentili, “perché non era affatto un duro”. “Aveva le mani morbide, la carnagione pallida e diverse lentiggini”, “era un uomo buono” che se apriva la bocca “si sentiva il Nebraska”, “un vero amante di conversazioni punteggiate da detti popolari”, scrive Alysia Abbott in “Come nelle favole” (Piemme, traduzione di Annalisa Carena).
Era suo padre, Steve Abbott: uno scrittore, un poeta e un attivista bisessuale che cambiò completamente vita, a cominciare proprio da quella sotto le lenzuola, dopo l’improvvisa morte della moglie in un incidente stradale nel 1973.
Abbott non riuscì a essere se stesso “nudo e irriverente” fino a quando non lasciò Lincoln per Atlanta e poi per San Francisco, “la città più affascinante della West Coast Usa”, secondo le guide della Lonely Planet. Quando uscì allo scoperto, ricorda Alysia, “lo fece completamente e a quel punto non avrebbe mai potuto tornare indietro”.
E’ stata lei a ritrovare i diari del padre in una credenza della cucina e a decidere di mettere insieme quegli scritti e quei ricordi venti anni dopo fino a farne un libro: la sua storia è quella di un genitore fuori dal comune nella folle San Francisco degli anni Settanta e Ottanta. La sessualità, ricorda James Hillman nel suo saggio bestseller, “La forza del carattere” (Adelphi) è in primo luogo nell’immaginazione ed è nell'immaginazione che nasce. Questo accadde anche a quell’uomo così speciale e la sua sessualità – scrive Alysia – “era un segreto che mantenni ben più a lungo del necessario che conservai finché la manifestazione fisica della sua malattia non mi costrinse a fare coming out”. La malattia, cioè l’Aids.
Prima di essere gay, Steve confessò a sua moglie la sua bisessualità e fu lei a dargli la miglior risposta di sempre: “Questo vuol dire che puoi amare tutta l’umanità anziché solo mezza”. “La famiglia che mio padre ha creato per me – aggiunge Alysia – per quanto non tradizionale, è molto estesa”. Ecco, quindi, uomini, donne, trans – conoscenti, amici, amanti o tutte queste cose insieme – in una città nel pieno di una rivoluzione. Tra queste pagine troverete ovviamente il noto quartiere gay Castro che nel 1974 stava emergendo come centro politico e commerciale in una San Francisco dove il futuro consigliere comunale Harvey Milk (recuperate “Milk”, il film di Gus Van Sant che lo racconta, straordinariamente interpretato da Sean Penn) organizzava già campagne fuori dal suo negozio di fotografia e, nel frattempo, a New York, all’interno del locale gay newyorchese Stonewall Inn, a Christopher Street, nel cuore del Village, dopo l’ennesima irruzione della polizia, una ragazza colpì un agente con una bottiglia, incitando gli altri a fare lo stesso. In tantissimi si ritrovarono – anche nei giorni successivi – fuori da quel locale-simbolo da cui è iniziato il movimento moderno per la liberazione degli omosessuali di tutto il paese e poi di tutto il mondo. In quel “luogo incantato” suo padre era per lei una sorta di compagno di giochi che la portava a tutte le feste, capace di rendere il reale straordinario, nonostante l’arrivo dell’Aids, che non fu né una maledizione né una benedizione, sottolinea la Abbott, ma “è quello che è”.
Leggere questo libro è come entrare in un museo con un pavimento rivestito da un parquet antico e vissuto: si cammina quasi in punta di piedi per non rovinarlo e per non creare troppi scricchiolii a ogni passo, mantenendo la giusta discrezione e attenzione per gustarlo al meglio. Avete tra le mani un memoir spumeggiante e toccante, pieno d’amore e di messaggi universali, tra cui una realtà imprescindibile, e cioè che esistono tanti orientamenti e tanti modi di essere, necessari perché le persone possano scegliere di vivere nel modo che trovano più naturale e bello. Handle with care, trattatelo bene.