La scia luminosa

Diventare padri uscendo da quell’angolo, e andare a cercare lavoro dallo sfasciacarrozze

Gaia Manzini

Padri che se ne stavano in un angolo a leggere il quotidiano o a fumare. Che non parlavano mai e, a volte, soffrivano in silenzio. Padri che si guardavano sempre intorno come per vigilare il territorio. Sembra che abbiano fatto sempre e solo questo, sono sempre rimasti sulla soglia. Ho visto un film qualche anno fa. Un film di Cristian Mungiu: Un padre, una figlia. Dopo il diploma, la figlia andrà a studiare in Inghilterra, perché l’Inghilterra è un posto più sicuro, più florido della Romania, più adatto a offrire un futuro. “Quando finalmente sarai lì, a Kensington Gardens, e te ne andrai a spasso tra gli scoiattoli, questo mondo ti sembrerà talmente lontano che ti chiederai se davvero sia mai esistito", le dice come facendo una promessa. Ma poi qualcosa va storto. La figlia viene aggredita a pochi giorni dal diploma: ferita al braccio e sotto shock, non sa se riuscirà a dare l’esame finale. E’ probabile che tutti i suoi sforzi verranno vanificati; vanificate tutte le aspettative, le proiezioni del padre. In una scena bellissima, dopo l’aggressione, il padre spinge discreto la porta del bagno: sua moglie sta facendo la doccia alla ragazza, le passa una spugna sulla bella schiena nuda. Lui non può che rimanere sulla soglia.

 

Davanti a scuola, in piscina, per strada, mi guardo intorno e vedo padri diversi che si concedono gesti nuovi, nuovi slanci. Padri che improvvisano e improvvisare gli viene bene. Ho visto un altro film pochi giorni fa. S’intitola Sole, lo ha girato Carlo Sironi, giovane regista romano, e sembra muoversi sul filo di una riflessione. Quando si diventa padri? Cosa significa davvero? Che poi è una domanda a cui nessuno sa rispondere con parole precise, ma è il chiederselo che crea un movimento, una scia luminosa.

 

E’ un film silenzioso Sole, un film che sembra un’attesa dilatata. C’è Ermanno (l’esordiente Claudio Segaluscio), un ragazzo di periferia, occhi grandi e verdi, occhi tristi. Gioca alle slot machine tutto il giorno, ruba motorini, fin quando non gli affidano Lena (Sandra Drzymalska). Lena che è incinta, che viene dalla Polonia e vuole vendere il suo bambino agli zii di Ermanno che non ne possono avere, sono sterili. Lena che ha ventidue anni, non conosce i suoi genitori ed è vittima lei stessa della maternità surrogata. Sarà Ermanno a prendersi cura della ragazza durante la gestazione. Sì, un film che è un’attesa: della bimba che deve nascere, di una vincita, di un futuro migliore che questi due ventenni non si permettono neanche di sognare. “Vieni a lavorare da me?”, chiede lo zio a Ermanno. “Non fa per me”. “E cosa fa per te?”. “Niente.” Studio, lavoro, amore, amicizia: niente. Perché non c’è niente intorno. In fondo anche l’orizzonte, che si scorge da una finestra sul mare, è piatto.

 

Poi Sole, la bambina, nasce a qualche settimana dal termine ultimo. Prima di affidarla agli zii deve essere allattata dalla madre ancora per qualche tempo. Ma qualcosa si è mosso in Ermanno: il movimento di cui parlavo, la scia luminosa. Quando Lena è in bagno, lascia piangere la figlia. Il pianto straziante dei neonati che ti insegue, ti tormenta, non puoi che accorrere: ma lei esita. E’ Ermanno ad andare da Sole, a cambiarla, a sussurrare parole per calmarla. C’è questa cosa dei gesti a cui non pensiamo mai attentamente. I movimenti che facciamo ci condizionano, le posture del corpo diventano posture della mente, nuove prospettive per gli occhi. I gesti sono una coreografia che dal corpo entra in profondità, si trasforma in emozione, in pensiero. E’ quel pensiero non detto che porta Ermanno ad andare a cercare lavoro dallo stesso sfasciacarrozze a cui vendeva i motorini rubati. E’ la piccola svolta epocale del personaggio. Ermanno ha già un racconto in mente. In fondo il futuro si costruisce così: inventandoselo nella testa come una storia (o un film).

 

Quando una sera salta la luce in tutto il quartiere, Ermanno e Lena fanno il bagnetto a Sole a lume di candela. L’acqua che sgocciola, gli sguardi che s’incrociano: diventa un rituale romantico. E il rituale romantico è sempre l’inizio di qualcosa. Di una famiglia che non sa di esserlo? Di un amore? Mi è piaciuta la regia pulita di Sironi, l’asciuttezza delle recitazione, il fatto che non ci siano sfumature melodrammatiche, ma una stratificazione di non detti che premono intorno al silenzio. Siamo lì e vediamo un ragazzino anodino e laconico trasformarsi in un padre. Carlo Sironi ci mostra con delicatezza la paternità, non tanto come un’evenienza, ma come un’emozione. Qualcosa che si prova a prescindere dai legami di sangue. Un’esigenza dell’anima.

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