La quinta madre del giorno, e quell'improvvisa confusione dei ruoli
I colloqui con i professori, il libro Cuore, la dignità perduta e di nuovo Antonello Venditti
Avevo appuntamento alle nove del mattino, mi ero prenotata sul registro elettronico. La quinta madre del giorno. Ma dicevo madre così, in modo generico, ero prontissima a scoprire, dentro la sala ricevimento professori, tutti i padri del mondo. A capo chino, un po’ intimiditi, un po’ scocciati, un po’ emozionati, esattamente come me: il primo incontro del primo anno di liceo, il primo tre in latino, o forse loro avevano figli con tutti otto, ma tanto l’immensa liberazione del liceo è questa: non dobbiamo diventare amici, non dobbiamo parlarci, non dobbiamo mangiare la pizza insieme l’ultimo venerdì prima di Natale in un posto con ampio parcheggio, anche per chi come me non ha mai niente da parcheggiare.
Comunque sono entrata in quella stanza, e a capo chino, un po’ intimidite, un po’ scocciate, un po’ emozionate, c’erano soltanto madri. Decine di madri, perché al tavolo i professori erano almeno quattro, pronti a tirare fuori i compiti in classe, gli occhiali, e in un caso anche un fazzoletto per una signora molto affranta. C’era una tale solennità là dentro che da qualche parte sono stata afferrata al collo dal libro Cuore (“Franti, tu uccidi tua madre!), e dal piccolo scrivano fiorentino che si consuma gli occhi, e dalla piccola vedetta lombarda, e da Garrone e dalla maestrina dalla penna rossa: è stato pericoloso, ma mi sono ribellata con forza, ho scacciato tutto l’Edmondo De Amicis dentro di me, tutti quei calzoni corti di fustagno, e tutte le madri silenziose dentro casa a cucinare, a rassettare, a piangere, tutte le maestre che diventano maestrine, e ho aspettato il mio turno di madre del Ventunesimo secolo, però ingobbita dal peso dei ricordi, e soprattutto trasfigurata dentro un immenso déjà-vu. Mi succede sempre la stessa cosa, e penso che sia grave, mia figlia dice che è grave, ma lei dice sempre che è grave, mia madre dice che è grave, ma lei è un’insegnante, non vale: supero il portone di una scuola e non capisco più chi sono.
Cioè, lo so che in teoria sono la madre, ho consegnato anche il documento, la bidella mi ha detto: signora la porta è quella, la professoressa mi ha detto: ah, lei è la madre di Benedetta, si accomodi, e io mi sono accomodata, scomodissima, e ho annuito come annuisce una madre, ho detto tutte le cose che deve dire una madre, compreso: eh sì, è molto distratta anche a casa (l’ho detto perfino con un sospiro, perché volevo mostrare la mia più completa sottomissione, ma soprattutto volevo discolparmi: sì, è molto distratta anche a casa, è come: lei lo capisce professoressa che vita che faccio. Credevo di avere una dignità, l’ho persa al primo colloquio di Latino).
Ho detto tutte le cose da madre di cui mi vergognerò per sempre, e per cui merito di andare a una pizzata di classe con ampio parcheggio (con un figlio in prima media, lo farò comunque venerdì prossimo, dopo aver comunicato per email le eventuali intolleranze alimentari, che in effetti sento crescere in me), ho ringraziato, ho promesso, ho specificato, ma sono uscita da lì con il cuore in gola, con un immenso desiderio di campanella, di ricreazione nei corridoi, di sabato pomeriggio in centro e di una sigaretta fumata in bagno.
Entro in una scuola e sono di nuovo a un concerto di Antonello Venditti, e ho di nuovo paura dell’ottativo, e penso tutto il tempo a come mi vestirò domani, e decido che studierò stasera tardi, anzi che metterò la sveglia presto domattina, e che odio il professore di Scienze, con quei baffi, con quel suo insistere con un sorrisetto sulla passera di mare, ma lo odio senza accorgermi davvero che esiste, perché c’è tutto il mondo dentro quel portone, e ci sono anch’io. Lo so che in teoria sono la madre, e anche nella sostanza sono la madre, ma sono stati troppo importanti quegli anni, troppo lunghi perché possano mai finire. Quindi esco dal portone un po’ di corsa, vado a comprare le sigarette, ne accendo una, tossisco, la butto, metto Venditti e penso che non sia grave.