Un giorno perfetto
La salvezza di Alidad (e la nostra): lui prima aveva tutto e poi più niente, nemmeno l’acqua
Guarda che ti lego sotto a un tir e ti faccio viaggiare così dalla Turchia all’Italia. Guarda che ti mando nei centri di accoglienza libici. Se non la smetti ti porto a Lesbo e poi vedi. Dovremmo aggiornare le nostre minacce. D’altra parte a noi dicevano mangia che in Biafra i bambini muoiono di fame, vuoi che muoiano di fame? Mangia. Mia nonna me lo diceva. I miei genitori no, al limite mi avrebbero potuto dire mangia che in Cile gettano i dissidenti dagli aerei, ma devo dire a loro discolpa che non l’hanno mai fatto.
Pensavo a questo quando ho ascoltato la storia di Alidad Shiri, che a dieci anni è partito da solo dall’Afghanistan, ha viaggiato quattro anni per oltre seimila chilometri, ha visto cadaveri nelle strade, ha avuto fame, sete, paura e poi è arrivato in Italia legato con una cinghia al semiasse di un camion. Ho immaginato di minacciare i miei figli così: guarda che se non metti in ordine ti lego sotto a un tir a cento chilometri orari, ma ho rinunciato subito perché so che avrebbero risposto “che figo”.
Perché la drammaticità di quel viaggio noi non riusciamo neppure a immaginarla. Quando torno a casa e inciampo nei Lego in soggiorno sono tentata di gridare basta, li butto via tutti i Lego, così capisci che ci sono bambini che non hanno nulla. Ma è solo perché i Lego fanno molto male quando sei a piedi nudi. Sono paragoni inutili, come mia nonna quando mi metteva sotto il naso la minestra e mi indicava i bambini con la pancia gonfia e le mosche sugli occhi e io non capivo come potessi aiutarli se mangiavo la minestra o come il mio disgusto per la minestra potesse peggiorare in qualche assurdo modo la loro vita.
Alidad Shiri è nato a Ghazi, in Afghanistan, 28 anni fa. Non era povero. Era figlio di un funzionario pubblico, benestante e stimato. “Mio padre – racconta – era un politico, girava con due guardie del corpo e con l’autista”. Alidad era un ragazzino a cui non mancava niente di niente, né giochi, né cibo, né amore. Era un ragazzino normale che andava a scuola, guardava la tv, viaggiava con i genitori e magari pure sua nonna gli diceva mangia che i bimbi del Biafra non hanno nulla. A un certo punto però in Afghanistan le cose sono cambiate, perché le cose a un certo punto possono sempre cambiare, anche se abbiamo la pancia piena e l’autista e i Lego sparsi sul tappeto e la nonna che ci dice mangia.
A nove anni suo padre viene ucciso dai talebani. Un anno dopo la madre, la nonna e la sorellina muoiono sotto le bombe. Alidad si salva e va a vivere con la zia e la sua famiglia. Fuggono in Pakistan. Quando ha dieci anni la zia paga un trafficante per portare Alidad in Iran. A causa dell’impegno politico di suo padre la sua vita – gli spiega – non è al sicuro in Pakistan. Inizia il suo viaggio. “Ho impiegato 24 giorni per arrivare in Iran – racconta – ho viaggiato in bus, a cavallo, sono andato a piedi. Non potevo farmi la doccia. Avevo i pidocchi. Poi in Iran ho lavorato per due anni in una fabbrica di frigoriferi”. Di giorno lavorano i dipendenti regolari, di notte i minori stranieri senza documenti. “Ero infelice, sognavo di studiare. Così ho chiamato la zia e mi sono fatto mandare 900 dollari e ho pagato un trafficante perché mi facesse arrivare in Turchia”. Da lì, a dodici anni, decide di andare ad Atene attraversando a piedi il confine, ma poi lui e gli altri migranti vengono abbandonati dai trafficanti in mezzo al nulla. Camminano ore e ore. Tre donne, somale, non riescono a stare al passo con il resto del gruppo e supplicano un po’ di acqua. “Alla fine – racconta oggi - abbiamo dovuto lasciarle indietro. Sono rimaste sole tra le montagne e mi si spezza il cuore se ripenso al fatto che le abbiamo lasciate senza acqua. Probabilmente sono morte e io ancora oggi non riesco a smettere di pensarci”. Anche Alidad, come Primo Levi in Sommersi e Salvati, combatte con il senso di colpa dei sopravvissuti, con il sottile sospetto interiore che in certe circostanze estreme a salvarci non siano le nostre doti migliori.
Da Patrasso all’Italia con una cinghia
Arrivato a Patrasso decide di raggiungere l’Italia. Al porto trova un tir e si lega con una cinghia all’asse anteriore. Viaggia così per due giorni e due notti. Senza bere, senza mangiare, senza andare in bagno, con il terrore di rimanere schiacciato o di essere trovato.
Mia nonna, quella che mi diceva mangia che i bambini in Biafra non hanno nulla, a merenda mi dava i cachi con il cucchiaino. Non i cachi mela che vanno adesso, ma i cachi tradizionali che non piacciono a nessuno. Poiché nel suo giardino aveva un albero immenso di cachi, mangiavamo cachi da ottobre e dicembre. Era una tortura. Erano sempre o troppo acerbi, allappanti e respingenti, o troppo maturi, molli e nauseanti. Erano buoni solo per un giorno. Quel giorno, alla giusta maturazione, erano perfetti, erano buonissimi. C’è sempre un giorno in cui tutto è perfetto. Quel giorno per Alidad è quando ha sciolto la cinghia, è sceso dal tir ed è stato accolto da una casa famiglia. Oggi si sta per laureare in Filosofia a Trento