Giusto Pinocchio
Impiccato a un albero o trasformato in un bambino? Il primo Collodi e l’ultimo Garrone
Se non siete mai stati ingannati due volte dalla stessa truffa, questo incipit non fa per voi. Purtroppo, però, se dite di non essere mai stati ingannati due volte io non vi credo: non ho mai conosciuto nessuno che dall’essere stato fregato una volta sola abbia imparato qualcosa, nonostante la finta narrazione di sé come persona che ha imparato la lezione. Quindi per brevità mi immolo io, faccio tutto il lavoro sporco ed esco con le mani in alto: ciao, sono la bi-fregata per antonomasia.
Ho incontrato il gatto e la volpe vestiti da cieco e da zoppa e mi hanno fregata, mi son detta che non gliel’avrei più permesso, li ho rincontrati vestiti da gatto un po’ più cieco e da volpe un po’ più zoppa e mi hanno fregata di nuovo, li ho incontrati la terza volta e finalmente li ho guardati come li guarda Pinocchio nel film di Garrone. Cioè li ho lasciati parlare, ho allungato il ditino e, per far godere lo spettatore immaginario che mi ero costruita nel cervello, come Pinocchio ho detto: eh no, non mi fregate più. Ovviamente, siccome non sono Garrone, non avevo nessuna spettatrice immaginaria a commuoversi come una babbiona al cinema, ma con un po’ di sforzo potete vedermi sprofondare nella poltroncina mentre nascondo la distanza tra una me stessa audace, gotica e dark, pienamente convinta che il finale giusto sia il primo scritto da Collodi, quello in cui il burattino muore appeso all’albero ammazzato dai due assassini, e un’altra, la babbiona commossa, che si esalta nella rivincita perché il bene deve trionfare e bisogna godere infierendo sui due mostri invecchiati e malmessi, il gatto davvero cieco e la volpe davvero zoppa. Gli onesti bambini che ci portiamo dentro hanno fede nella giustizia divina e sanno che i truffatori che giocano con i sogni degli altri devono finire così: brutti, vecchi e penosi senza far pena. Sanno pure che nella vita di solito è il contrario e le creature orribili hanno la meglio, soprattutto se pur di fare di testa tua hai ucciso il tuo grillo parlante a martellate (succede anche questo, nella prima versione di Pinocchio). Magari non sanno che, a far come ti pare, alla fine ti ritrovi a testa in giù a invocare la sapienza del babbino e dei suoi buoni consigli, né lo vogliono sapere: quel primo finale fu talmente intollerabile per i lettori che Collodi si convinse a edulcorarlo trasformando una morte per impiccagione in una metamorfosi con tanto di rinascita, ovvero una punizione in un premio. Se sia poi davvero un premio smettere di essere una creatura eterna come Peter Pan e fare la fine di Dorian Grey non saprei dirlo; oserei anzi avventurarmi nell’ipotesi che, scocciato dalle pressioni editoriali, Collodi abbia fatto fuori la sua creatura in un modo persino più crudele: diventerai un bambino in carne e ossa quindi perderai tutta la tua innocenza e tutta la tua dabbenaggine, sarai sottoposto alle leggi del tempo, sarai un bravo e noioso figliolo, vedrai il tuo babbo morire e infine morirai a tua volta. Ma questa è una minaccia! Non era meglio restare un anarchico, bugiardo, irredimibile burattino? E dunque, tornando a noi, qual è il Pinocchio giusto?
Per non sbagliare, li suggerisco entrambi: al cinema questo nuovo di Garrone, che ha la struggente estetica degli albi di Benjamin Lacombe e scoppia di buoni sentimenti come l’ultima versione di Collodi, e in libreria quello primigenio appena ripubblicato dal Palindromo, che ha in catalogo un libro come Creature fantastiche di Sicilia (di Rosario Battiato e Chiara Nott), e per analogia fa somigliare quella “prima oscura edizione” (sic) a una storia mitologica di mostri e creature inafferrabili – merito anche delle illustrazioni di Simone Stuto, che evocano un immaginario alla Bruno Schulz, e dell’ottima curatela di Salvatore Ferlita.
Nella postfazione intitolata Il Pinocchio rimosso, Ferlita fa un interessante paragone fra Carlo Collodi e Sir Arthur Conan Doyle, che a distanza di dieci anni l’uno dall’altro decisero di far fuori i loro personaggi. Tutti e due poi ci ripensarono: Collodi riscrisse Pinocchio cambiando il finale e Conan Doyle continuò a pubblicare storie in cui Sherlock Holmes era vivo. Ma se la scelta assassina del secondo era dettata dall’insofferenza dell’autore verso il suo personaggio, la letteratura collodiana è scientemente macabra, con quell’impiccagione da Cristo in croce che muore invocando il padre. Il primo Pinocchio sembra un racconto apocrifo di Edgar Allan Poe, oppure un capitolo perduto della Bibbia: rileggetelo, è meraviglioso e nel decesso del burattino troverete la vostra catarsi. Però, dopo essere finiti a testa sotto, ricordatevi di risorgere e andare al cinema, fosse anche per dire a quei brutti ceffi: non mi fregate più! Ogni tanto bisognerà pur vincere, ché tanto per morire c’è sempre tempo.