Il punto più basso
Confessione di una madre che guarda l’intera vita passare. E intanto annusa le stanze dei figli
C’è un momento in cui sai di aver toccato il fondo. Sai di aver raggiunto, come madre, il punto più basso delle tue molte parabole: tre figli maschi, mai passi indietro nel lavoro, non se ne parla, al diavolo chi dice sei una pazza, al diavolo chi dice come fai. Fai che, oltre a essere pazza, sei pure un’acrobata circense, creatura transumante tra due vite, sminuzzata, sbalzata in quel tuo saliscendi parabolico, sperduta in un tuo delirio dissennato, ubriaca di onnipotenza e sonnolenza, ubriaca di cure e di paure, ubriaca di stanchezza e di sensi di colpa, ubriaca anche d’amore. Ora temi che questa tua ennesima parabola materna sia la peggiore, la più definitiva, la più diritta, la più verticale, vai giù in mezzo minuto, sappiatelo, madri, e non è detto che risalirete. Sappiate che un giorno i vostri figli vi diranno mamma, io parto per la guerra, addio. Andranno a combattere non “per” ma in sottrazione di se stessi alla patria. Andranno in qualunque posto del pianeta che non sia questo senza qualità. Faranno bene. E tuttavia ti spezzeranno il cuore.
Sarai di nuovo madre per Natale, per qualche week-end, soprattutto su Whatsapp. Avrai dei nipoti che cresceranno senza nonni, sarai una nonna che invecchierà senza nipoti. Dovrai scordarti i pranzi della domenica, raccontami una favola, cantami una canzone dello Zecchino d’oro, nonna ti porta a scuola in piscina al parco al cine, dove vuoi, dio solo sa se mi rimpiangerete. E mentre starai lì a chiederti che fine farà la staffetta della memoria (la tua, la loro storia, la storia dell’Italia intera), vedrai diventare grandi i tuoi nipoti nel perimetro incongruo di uno schermo piatto, reciproche incomprensioni linguistiche, scusa, come? A questo punto ti incarterai nello strato più sottile di te stessa, quello che si strappa per causa delle debolezze, e in verità sei già un cencio sdrucito, e prima d’ora non era mai accaduto. Prima, nei momenti duri, avevi l’aiutino da casa, la versione di mamma che ci dà le dritte come un guru indiano. E prima facevi la sbruffona, io so cosa fare, se non lo so faccio finta di saperlo. Calma, insopportabilmente calma e sorridente, avanti, vai così. E vai così con gli strepiti notturni che poi domani devi lavorare. Con la febbre a 40, chissà se sopravvive. Con “sei una cagacazzi ma’”, il rito della sconfessione. Vai così con le seghe a scuola e le altre seghe, la casa contaminata dal testosterone, e sogni di scappare in un convento femminile. Vai così con gli incidenti a calcio o in motorino. Con “suo figlio rischia la bocciatura”; e il 6 in condotta; e lividi e sangue e urla; e la fidanzatina disperata, lui è uno stronzo (un altro, e lo hai messo in circolazione proprio tu); e l’erba nascosta tra il libro di matematica e quello di latino.
L’intera vita di madre ti scorre davanti, e tu annusi. Annusi tutti i giorni, con cupidigia, con gli occhi chiusi e una potenza olfattiva insospettata. Annusi, ma non ciò che pensate voi. Annusi le loro camere da letto, i capi d’abbigliamento, i cuscini, le lenzuola, la loro biancheria, annusi con competenza, hai sempre saputo distinguerli tra loro, quei tre odori, sin dai miasmi venefici dei pannolini. Annusi sotto gli occhi dell’unico figlio rimasto, quadrupede e peloso, che in sincrono annusa pure lui, estasiato da questa vostra nuova affinità.
Comunque non intendi farti consolare. Tanto sei inconsolabile. Tanto dicono cose che sai già. Lo sai già che sei parte di un grande fenomeno sociale, la migrazione in uscita, molto più grave di quella in entrata, e tu sei una specie di migrante passiva, hai un tuo ruolo nel rischio estinzione, culle vuote e giovani in fuga e vecchi immarcescibili, Italia addio. E lo sai già che hai allevato tre figli indipendenti e intraprendenti, pensa che guaio se rimanessero attaccati ai tuoi polpacci, che poi noi genitori siamo l’arco e i figli sono frecce, Mark Twain lo diceva, sai? Lo so, ho detto che lo so, infatti di quei figli sono fiera, né mai nella vita potrei mettermi a polemizzare con Mark Twain. Adesso hai tempo per riflettere, per chiederti se, come madre, tu non sia stata forse troppo poco, con sempre di mezzo il tuo lavoro, o se al contrario, tu sia stata nel giusto, equilibrata, o se magari invece tu non sia stata troppo, un sovrappiù di madre? Magari hai fatto troppo, hai detto troppo, non ti sei accorta che quei tre ruminavano insofferenza senza dirtelo, “che palle, mamma, anche meno”. Chissà se un giorno, parlando di te ai loro figli (ne parleranno? Avranno figli?) diranno nonna era brava, era buona, però era troppa, e i loro figli, cresciuti in civiltà più algide, si chiederanno “troppa che vuol dire”? Se ci sarai ancora, i tuoi nipoti ti interrogheranno. Lo faranno in qualche dialetto anglofono o in qualche lingua germanica. E tu non capirai.
“L’imperfezione delle madri” di Marisa Lombardo Pijola è da ieri in libreria.