Il suo lavoro serve
La passione di mia madre, la mia paura, e un pezzo di terra che brucia. Pane e salame per rivivere
Mia madre fa un lavoro socialmente utile. La salumiera. Lo fa con una passione che a me sconcerta, vorrei averla io. Il suo lavoro serve, senza il suo lavoro, più o meno, saremmo tutti morti. Del mio, invece, se ne potrebbe tranquillamente fare a meno, perché di libri o di sceneggiature ce ne sono di più belle di quelle che devo scrivere io. Ma se vuoi il salame buono te lo devi andare a comprare al supermercato, poi te lo metti nel pane caldo che pure quello mia madre lo vende e poi ti prendi una birra ghiacciata dal frigo ed esci fuori, mangi seduto sui gradini mentre un raggio di sole ti illumina. Subito dopo ti senti meglio, rinato, vivo. E dopo un paio d’ore sei pronto a ricominciare.
E il punto non è soltanto che sei pronto a ricominciare, ma anche che vuoi ricominciare. Dopo due ore – alcuni riescono addirittura a far passare tre ore tra un pranzo e un altro, altri poi usano la parola digiuno – dopo due ore insomma, noi uomini di questa civiltà dobbiamo rientrare nel supermercato e comprare altro prosciutto crudo, una mozzarellina, qualche oliva piccante, un pacco di pasta anzi due… beni di prima necessità. Per questo mia madre, nonostante questo virus bestiale, dopo una vacanza di una settimana a Roma che ha passato segregata in casa a causa della paura, oggi deve tornare giù, in provincia di Lecce a lavorare per garantire che quelli come me possano morire sì di coronavirus, ma non di fame.
Mio padre scalpita. Basta, ti manca poco alla pensione. Troviamo un modo perché resti a casa, un certificato medico, qualcosa. Anche io insisto con lui, ha ragione. Perché mia madre ci tiene tanto a lavorare? Perché non pensa che potrebbe essere sostituita da qualcuno più giovane, più in salute di lei, che possa garantire le stesse cose che fa lei? Ma mia madre non ascolta. Il suo rifiuto si chiama, oltre che passione, senso del dovere. Mio padre si incazza ancora di più, è tempo di pensare a noi, dice. E io, di nuovo, gli do ragione, perché questo senso del dovere di mia madre, in molti casi ha frenato un po’ la loro vita. “Scendiamo tutti giù”, conclude mio padre.
Lui fa un ragionamento semplice: lì da noi abbiamo tutto. Se ci facciamo un giro in cantina troviamo dispense per poter vivere un anno intero senza mettere il naso fuori di casa: olio d’oliva a volontà (per quanto la xylella ci abbia reso difficile l’annata), farina nei sacchi, vino nelle botti. E nel giardino possiamo delimitare uno spazio per allevare delle galline e un altro per piantare i pomodori. Che c’è di meglio dei pomodori del giardino, dice. Io, purtroppo, ho cominciato a distrarmi, ho la testa ficcata nella scrittura di una scena difficile, mentre lo ascolto sostenere che bisogna rendersi autosufficienti. “Solo chi ha un pezzo di terra è destinato a salvarsi”.
Il pezzo di terra. Giù al paese ce l’abbiamo davvero. E’ un terreno che vale pochissimo perché ogni anno, il 6 e il 7 agosto per la precisione, prende fuoco. Succede perché in un altro pezzo di terra che gli sta di fronte si svolge la faccenda dell’accensione dei fuochi d’artificio per festeggiare il Santo Patrono – San Donato, come il nome del mio paese – e si svolge alla presenza della statua stessa. Lo spegnimento, la caduta dei detriti, per questioni di fisica e matematica e non so che altro, si verifica sempre nel pezzo di terra di nostra proprietà.
Mia madre l’ha ereditato da mio nonno, e in famiglia lei, mio padre e io siamo sempre stati presi in giro per aver guadagnato un terreno di terra cattiva, senza valore, buono giusto per piantare le patate. Agli altri fratelli di mia madre, invece, in modo del tutto casuale, sono toccate in sorte case, beni immobili che valgono qualche lira in più. Almeno sino a oggi. Ecco che questa disgrazia del coronavirus arriva non solo come un flagello, ma mostrando anche una faccia buona, speranzosa. “Quel pezzo di terra è tuo”, conclude mio padre.
Il mio compagno alza gli occhi su di me, io ricambio ma solo per un attimo. Cosa vuole? Perché mi indaga così? Vuole andare giù a coltivare la terra? Mi manca mio nonno, lui avrebbe saputo dirmi cosa fare e se avessi deciso di mettere a frutto quel pezzo di terra, che proprio da lui arriva a me e a mia figlia, avrebbe anche saputo spiegarmi come coltivarlo al meglio, e mi avrebbe insegnato il ciclo delle stagioni e come guardare il cielo per capire se tra due ore pioverà. Sì, mi manca.
Vabbè. Finisco di scrivere questa scena maledetta: c’è una donna che scopre un cadavere nel frigorifero di casa sua… che fame che ho, però. Vado a raccogliere un’insalata e un paio di pomodori, magari ammazzo anche una gallina e faccio un brodo bello saporito… cioè volevo dire, vado al supermercato a fare la spesa. Per fortuna che ci sono i supermercati, che sono aperti e riforniti. In fondo sono il pezzo di terra di questo millennio. E per fortuna che c’è mia mamma che vuole lavorare, imperterrita, come se non stesse per arrivare la fine del mondo.
Ilaria Maccchia è sceneggiatrice e scrittrice