Il latte rovesciato, la spazzola lanciata, e l'inizio di una personale fase due
Quando ci ritroveremo in mano la libertà, sapremo che cosa farcene? Serve un progetto
Dopo avere rovesciato il latte sul fuoco, e dopo essere inciampata nel filo del mio computer trascinandolo per terra insieme alla sedia, mi sono fermata per dieci minuti, ma forse di più, davanti al cesto della biancheria sporca senza riuscire a decidere che farne: però maturando la precisa convinzione che alcune felpe e paia di jeans siano arrivati lì da molto lontano, da altre stanze, in volo, lanciati forse con una fionda dai miei figli che devono risparmiare le forze per altre imprese, non so quali – e infatti nel viaggio di migrazione tre calzini hanno evidentemente perso l’orientamento e hanno deciso di fermarsi a riposare, chi su una lampada chi su una scrivania.
Non ho la consolazione di guardare il bucato girare dall’oblò della lavatrice, perché la mia lavatrice si carica dall’alto, sono sicura che altrimenti non avrei lanciato forte una spazzola sul pavimento del bagno, senza nessun altro scopo che farla cadere, vederla rimbalzare, sentire il rumore, spaventare il cane che per la prima volta mi ha dimostrato che la coda tra le gambe esiste. Improvviso e direi rispettoso silenzio in tutta la casa. Ho raccolto la spazzola, intatta, di plastica, brutta come prima, probabilmente offesa ma non me ne importa perché mi ha sempre spazzolato malissimo.
Questa tragedia porta con sé tantissime incertezze, ma mi ha mostrato in un solo mese e in modo inoppugnabile la distinzione tra chi è bravo e chi no. Chi è buono e chi no. Chi ha un pensiero in testa e chi no. Chi mi vuole bene e chi no. Quella spazzola, per quanto possa sembrare innocente a un primo sguardo, non mi voleva bene. In ogni caso l’ho raccolta, l’ho riposta, ho chiesto scusa al cane per lo spavento, ho caricato dall’alto la lavatrice e ho pulito tutto quel latte versato prendendo una decisione seria, attraverso un decreto individuale, ma credo che anche i governanti saranno d’accordo con me.
Comincio, e non è ancora Pasqua, la fase 2. Lo faccio prima di distruggere tutte le spazzole della casa e passare ai piatti. Non intendo violare nessuna regola, nessun coprifuoco, non ho deciso di aprire domani un negozio di parrucchiera, e non sfonderò la vetrina di una libreria prima che riapra legalmente. Ho scelto una fase 2 interiore. Qualunque cosa accada, io penso al dopo. Immagino il dopo. Costruisco il dopo. Mi preparo al dopo. Mentre raccolgo da terra magliette che non avevano ali abbastanza forti per volare fino al posto giusto, penso a quando volerò via io per quattro giorni, anzi cinque, con una valigia intera. E penso alle cose che fino a un mese fa, cioè nel vecchio mondo, sembravano normali, e che quando ricominceremo a farle si riveleranno in tutta la loro meravigliosità. La prima è: dai, perché non ci vediamo a pranzo? La seconda è: ti scrivo quando sto arrivando. La terza, ognuno scelga quello che vuole, ma è difficile ritrovarsi in mano la libertà dopo tanto tempo: si rischia di non sapere che farsene. Per questo è necessario un progetto, un programma segreto, qualcosa che vogliamo assolutamente fare, fosse anche andare a comprarsi un paio di mutande di seta, o un coccodrillo gonfiabile, o una bicicletta da corsa. Ognuno di noi ha dentro di sé la classifica di quello che più gli manca, di quello che sogna guardando, beato lui, l’oblò della lavatrice. A certi manca la ceretta dall’estetista in modo struggente. Ad altri il cono gelato in gelateria. Il treno. Il caffè al bar. Una manifestazione con i cartelli che fermi il traffico. Una passeggiata in riva al mare. Uscire senza dire dove si sta andando. Ma se qualcuno me lo chiede, sto andando a comprarmi una spazzola nuova, più buona, più gentile, più giusta per me.