Papà, sei tu?
Luca è morto da solo, ma con una certezza: sono un padre anche ora che non respiro più
In memoria di Luca De Mata
“Per favore, chiamami Luchino” chiede alle persone che incontra. E’ così che lo chiamava sua madre, gli hanno raccontato. Ed è così che vuole essere soprannominato ora, che si sente smarrito. Perché Luchino, che ormai di anni ne ha più di settanta ed è malato di cancro, ha voglia di sentirsi il figlio che non è mai stato: avrà pur diritto, lui, di piegare la fronte nell’abbraccio di una madre, di nascondervi lo sguardo e la paura. Questo pensa, mentre nel suono del diminutivo che gli è così caro cerca l’immagine di una madre che non ricorda: l’ha persa troppo presto e nel petto gli è cresciuta, di anno in anno, la ferita di un abbandono. “E’ così, abbandonato e solo, che mi tocca morire?” chiede a sé, a chi gli sta intorno, agli infermieri, ai medici, a chi trasporta il suo corpo, d’urgenza, in ospedale, a chiunque possa offrirgli le risposte che cerca.
Solo due occhi, tra tutti gli sguardi, contengono più domande dei suoi: sono quelli di sua figlia. Gli somigliano al punto che, nella confusione, li scambia per i propri e si spaventa - “Dio mio, può essere così smisurata la paura?” – sino a che, riconoscendovi, d’improvviso, l’angoscia della sua bambina, lui, senza sforzo, ritrova l’innata propensione dell’essere padre.
Adesso, mentre è steso sul letto nel reparto di un ospedale molto affollato, si accorge che è una sola la voce che vorrebbe ascoltare: quella, premurosa e dolce, di chi lo chiama “papà”. Di Luchino e dell’essere figlio se ne è dimenticato. Quel che non dimentica sono le manine sottili che poche ore fa gli porgevano un bicchiere, la preghiera che avrebbe voluto vederlo mangiare di più, “sei magro, papà”, i sorrisi brevi di un amore ancora capace di scansare il dolore, le movenze famigliari di un corpo che si è costruito sulle orme del suo, che in alcuni momenti se ne è voluto differenziare, per reazione e sottrazione, eppure oggi gli somiglia con orgoglio impetuoso.
Qualcuno gli solleva la testa, lui fa sempre più fatica a respirare.
“Lei si è preso un brutto virus, lo sa… E non è di certo nelle condizioni migliori per sconfiggerlo” dice la voce che lo intuba. “Una polmonite che noi non sappiamo come curare. Faremo di tutto, di tutto, davvero, eppure non è molto quel che possiamo fare. E’ terribile questa pandemia e sta un po’ a lei, a come reagirà, mica ce la abbiamo la cura. Finché i suoi polmoni resisteranno, finché l’ossigeno le basterà…” continua la voce dell’infermiere che, per un poco, gli dà il sollievo che cerca: finalmente respira, male, ma respira.
Quell’aria nuova, quei polmoni che sente pieni, li dedica alla sua bambina. Se non fosse certo dell’impossibilità di averla là con lui – “Mi spiace, il virus è altamente contagioso, queste sono le regole, non vi è permesso incontrarvi in alcun modo” – crederebbe proprio di vederla: la sua immagine, sì sfocata, ha le sembianze di una presenza, più che di una assenza. Che strano, quando si è padri, e i figli li si può persino inventare. La guarda, con passione e gratitudine per le cose che lei gli ha dato; e ora con un moto di fierezza irrefrenabile (è felice!) perché anche lui, se ne rende conto, le ha dato tanto. L’ammira e, forse per la prima volta così chiaramente, attraverso l’ammirazione che ha per lei ammira sé stesso.
“Ecco cosa sono: un padre! Ho fatto molte cose nella vita, sì, molte: per il cinema, per la televisione, e ho scritto libri e ho amato, ho costruito una famiglia nel migliore dei modi – tra i modi che mi erano possibili. E se tutto quel che ho fatto, oggi, posso e devo declinarlo al passato, il mio essere padre, beh, questo proprio no: sono padre persino ora che respiro debolmente e il mio essere padre me lo porterò nella tomba! Persino nei giorni, nei mesi, negli anni e nei secoli che verranno, nella maniera in cui mi sarà concesso, io sarò padre”.
Così pensa Luchino mentre muore, ed è talmente felice da non accorgersi nemmeno che sta morendo. Anche il mondo pare prenderne coscienza molto lentamente: quella piccola esperienza individuale di fine è sovrastata da un esercizio collettivo di morte che rende ogni estinzione più sola, ogni solitudine più dolorosa, ogni dolore più deserto e ogni deserto più disabitato.
Sua figlia – lei, che quel deserto sa abitarlo – prima di ogni annuncio tende l’orecchio al nulla: “Qualcuno ha detto qualcosa?” chiede, e il nulla le risponde. “Papà, sei tu?” e le pare di vedere annuire il silenzio. “Potessi, almeno, tenerti la mano…” “Non ho più paura.” Caterina tende le orecchie e ascolta la sua perdita: è senza corpo, ma non priva di parole. Osserva come la natura la confina, guarda come la realtà la limita, contempla l’eterno a cui, sommessamente, partecipa e poi lo vede: sfocato, sì, ma felice. “Papà!”, esclama, mentre anche lei comincia a inventarlo.
Anna Giurickovic Dato è una scrittrice. Il suo ultimo libro è “La figlia femmina” (Fazi)