Reality fiction
Se la sofferenza e i segreti di famiglia diventano letteratura. L’inferno sono gli altri?
La notte di Natale una donna si rigira nel letto da sola, ha paura di morire. E’ un pensiero veloce, fugace, uno di quei pensieri che abbiamo tutti; non fosse che la sua paura è molto circostanziata: il timore più grande non è la fine, ma l’essere seppellita dalla famiglia di origine, il discorso di commiato pronunciato da suo padre e sua madre, le bugie che racconterebbero su di lei e su tutti loro.
Cosa tiene insieme una famiglia? Cosa succede quando un genitore muore? Eredità di Vigdis Hjorth, pubblicato da Fazi, inizia con la scomparsa di un padre, un testamento da aprire, il confronto tra una madre e i suoi quattro figli. Ma per Bergljot, la protagonista di questo impetuoso romanzo scandinavo, quel testamento è molto di più. Lo capiamo fin dalle prime pagine, da quell’atmosfera che ricorda Festen, il film che Thomas Vinterberg ha scritto e diretto nel 1998 (il primo ad aderire al manifesto Dogma 95). Il punto non è tanto scoprire cosa sia successo a Bergljot nell’infanzia – lo intuiamo fin dall’inizio –, piuttosto come il suo dolore verrà trattenuto oppure espresso; quali sono le forze che si contrappongono dentro alla famiglia. Quali le ragioni di Asa e Astrid nel difendere la memoria del padre; quali i motivi della rabbia di Bard e Bergljot. C’è un paradosso interno, una questione insolvibile al centro della narrazione: chi è stato vittima di violenza ha comunque conformato l’esistenza allo scopo di compiacere il proprio genitore, e quando il gentitore muore, all’improvviso, il figlio non può che provare un vuoto improvviso, una vertigine. Continuiamo a leggere per trecento pagine solo per capire chi l’avrà vinta, se la famiglia o Bard e Bergljot che vogliono il riconoscimento della propria sofferenza.
Facciata e segreti, verità e interpretazione. Il libro ha fatto molto discutere in Norvegia sulla questione etica di adattare gli eventi della propria biografia, come ha fatto Hjorth, allo scopo di scrivere un romanzo. L’autrice – insieme ad altri grandi autori scandinavi, tra cui Karl Ove Knausgaard – è stata accusata di violare la privacy delle persone, pubblicando dettagli intimi in forma di fiction. A un anno dalla pubblicazione di Will and testament, (questo il titolo in inglese di Eredità), Vigdis Hjorth ha ricevuto una mail nella quale veniva informata che sua sorella Helga Hjorth avrebbe da lì a qualche mese pubblicato un libro. La storia sarebbe ruotata intorno a una donna la cui vita era stata sconvolta dalla autobiografia disonesta che la sorella maggiore aveva scritto qualche anno prima. Ma alla ‘reality fiction’ non si può che rispondere con la ‘reality fiction’: la prima ex moglie di Knausgaard, Tonje Aursland, ha registrato un documentario nel quale descrive gli effetti negativi che aveva avuto sulla sua vita l’essere descritta nel romanzo del marito. Boström, invece, che ha divorziato da Knausgaard nel 2016, ha recentemente pubblicato un libro ispirato ai trattamenti psichiatrici ai quali è stata sottoposta, in parte descritti nei romanzi di Knausgaard. Come a dimostrare che la rielaborazione di fatti personali è qualcosa che piace da sempre alla letteratura. Che si parte sempre dal proprio sentire, dalle proprie ferite e si inizia a costruire da lì, attingendo quasi sempre a quello che ci è successo. Perché quello che ci è successo è ciò che conosciamo meglio, quello di cui ci vogliamo liberare.
“Non è facile essere un essere umano” dice nel romanzo il padre di Bergljot. I libri parlano di questo, diceva Carver, di cosa significa essere umani. C’è una scena significativa a metà romanzo, è un ricordo. Quando la protagonista rimane incinta del suo primo figlio chiama i genitori subito dopo il test di gravidanza. Sua madre la invita a casa, le va incontro, sorridente e misteriosa. Poi sottovoce le comunica di essere incinta anche lei. Le dice che avrebbero comprato insieme i vestitini, la convince a rifare il test insieme, in una specie di competizione. Dopo un’ora, i test risultano entrambi positivi, almeno fino a quando non si capisce che la madre ha manomesso il contenitore, fino a quando non capiamo la gelosia sempre taciuta per la figlia, l’incapacità di proteggerla, l’ipocrisia del suo infantilismo. E’ la madre a non riuscire neanche a pronunciare la parola dell’accusa tremenda di Bergljot: insesto dice, come se fosse un suono senza senso, un susseguirsi di sillabe senza un vero significato. O forse solo un camuffamento per non ritrovare le immagini che la parola esatta sarebbe capace di evocare. “Ci vuole molto lavoro e molta fatica per trasformare la sofferenza in qualcosa di utile per qualcuno, soprattutto per chi ha patito in prima persona”. I libri offrono a chi scrive – ma anche a chi legge – questa occasione: la possibilità eccezionale di trasformare il dolore, di dargli delle proporzioni e un senso. Fino al momento in cui non lo si allontana per sempre dalla propria vita. O quasi.