(foto LaPresse)

Metà del tuo dovere

Claudio Marinaccio

La fissazione di mio padre, le lacrime di un bambino, Franco Oppini e l’autografo di Baggio

Quando mio figlio prende un bel voto a scuola, o fa qualcosa di bello, gli dico che è stato bravo. Non lo faccio perché penso che sia migliore degli altri – non sono uno di quei genitori che incitano i propri figli sempre e comunque – ma semplicemente mi sembra giusto fargli sapere quando la strada intrapresa è quella giusta. Mio padre, invece, mi diceva sempre: “Hai fatto metà del tuo dovere”.

 

Sono passati molti anni e ancora mi domando quale fosse l’altra metà, come se il dovere si potesse scindere in due parti uguali e io potessi ambire a una solamente. Ma dove finiva quella che non riuscivo a ottenere anche quando mi sembrava di essermi impegnato al massimo? Ho sempre immaginato che finisse in un luogo non fisico dove si accumulano tutte quelle metà di cose buone fatte, ma che non si possono godere appieno. Come se fossero calzini spaiati, persi per sempre e impossibilitati a congiungersi alla propria anima gemella.

 

Mio padre era come Zeus e aveva tagliato in due il dovere così da indebolirlo ma nel contempo raddoppiarlo di numero e renderlo più utile ai suoi scopi. A me quella metà mancava terribilmente, come se fosse una chimera irraggiungibile, qualcosa di utopico, un sogno intangibile che non avrei mai potuto realizzare. Una volta al PalaRuffini di Torino, un palazzetto da quattromila posti che esiste ancora adesso, c’era una partita di beneficenza tra la Juventus e una squadra di basket di cui ora non ricordo il nome, poteva essere l’Auxilium, ma non ne sono sicuro. Giocavano anche alcuni attori e cantanti. Avevo solo otto anni e quel giorno ero felicissimo perché potevo vedere da vicino il Divin codino. Andavamo allo stadio delle Alpi tutte le domeniche che la Juventus giocava in casa, ma dentro quel palazzetto potevo vedere Roberto Baggio a una distanza umana. Era lì, a pochi metri da me, in carne, ossa e codino. Avevo le sue scarpe Diadora (che erano scomodissime quando le usavo per giocare), mettevo la maglia fuori imitandolo e cercavo di convincere mio padre a farmi fare lo stesso taglio di capelli anche se lui ogni volta mi diceva di no. Durante l’intervallo di questa partita, in cui giocavano un po’ a calcetto e po’ a basket, mi sono avvicinato al parquet sentendo le mie scarpe “squittire” a ogni passo, ero emozionato. Roberto Baggio era davanti a me, una divinità pagana avvolta dall’aura di celebrità che nei miei occhi ingenui sembrava quasi visibile, come un contorno di luce che lo illuminava. C’erano altri bambini che lottavano per non perdere la posizione usando gomiti e urla destabilizzanti pur di ottenere un po’ della sua attenzione. Eravamo come zombi attaccati alle transenne con in mano una penna e un taccuino per l’autografo. Non c’erano i cellulari per immortalare il momento con una fotografia, solo con l’inchiostro e la carta potevi rendere tangibile quell’incontro e ricordarlo per sempre. Gridai “Roberto” con tutta la voce che avevo in corpo, mi venne anche da tossire per lo sforzo. Baggio mi guardò e mi fece segno che sarebbe passato dopo, ma quel dopo non arrivava mai. In quel momento mi passò davanti Franco Oppini che, vedendomi con le braccia protese in avanti, prese il taccuino e la penna e firmò con il suo nome e cognome, sorridendomi. Io non sapevo neanche chi fosse e un signore seduto dietro di me mi disse che quello stava con Alba Parietti, fischiando per sottolineare la cosa.

 

Il mio mito era un po' stronzo

 

Tornai da mio padre deluso, con gli occhi lucidi, mi veniva da piangere ma mi stavo trattenendo. Mi ero reso conto che Roberto Baggio – il mio mito, il mio giocatore preferito in assoluto, quello che avrei voluto essere da grande – era un po’ stronzo. Mio padre vedendomi così, avendo capito cosa era successo, si alzò e si fece strada tra i bambini spostandoli un po’ a destra e un po’ a sinistra. Poi, arrivato alle transenne che dividevano il pubblico dagli spettatori si ficcò due dita in bocca e fischiò così forte che oscillarono le vetrate del palazzetto. Baggio non si girò, Oppini sì. Mio padre gli fece segno di avvicinarsi e lui obbedì. “Puoi far fare l’autografo a Baggio, per favore? E’ per mio figlio” e mi indicò con la mano. Oppini prese il blocchetto e andò da Baggio che parlava annoiato con Eugenio Corini e gli fece firmare quel taccuino. Poi tornò da mio padre e lui lo ringraziò. Ora avevo quello che volevo, l’autografo del grande e unico Roberto Baggio. Ma ormai non mi importava più di tanto. Avevo mio padre e mi bastava. Quando stavamo tornando a casa in macchina mio padre aveva iniziato a vantarsi: “Visto che sono riuscito a farti fare l’autografo da Baggio?”. Io con il mio taccuino stretto tra le mani gli ho risposto: “Hai fatto metà del tuo dovere”. Poi abbiamo riso insieme.

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