Noi imperfetti
Segreti e bugie che costruiscono una vita, nell’apparente felicità borghese di Anna, che ha tutto
Non tutte le donne vogliono diventare madri, non è detto che tutte quelle che vogliono esserlo riescano a diventarlo, e se ci riescono, poi, non è detto che lo faranno al meglio. “Non è vero che ogni volta che una donna partorisce, nasce anche una madre”, ha detto Federica De Paolis poco dopo aver ricevuto la notizia di aver vinto il Premio DeA Planeta con il suo libro “Le imperfette”. “In molti casi non è così e la verità è che noi esseri umani siamo imperfetti: anelare alla perfezione non funziona”. Essere il contrario, quindi, vuol dire essere fallibili e uscire da “una tela bianca senza ombre”, che è poi quella in cui è sempre vissuta Anna, la protagonista di questo romanzo, che Federica De Paolis – dialoghista cinematografica, autrice tv e scrittrice – ha firmato all’inizio usando lo pseudonimo Paola Punturieri, il nome di sua madre morta anni fa.
Anche la madre di Anna è scomparsa troppo presto, ma a compensare quell’assenza ha sempre pensato a suo modo il padre Attilio, un uomo molto protettivo nei suoi confronti e proprietario della clinica privata Villa Sant’Orsola, un villino degli anni Quaranta decadente e fascinoso tra palme e oleandri, gestito adesso dal marito di Anna, Guido. Gli oleandri sono piante molto belle da vedere, ma se ci si avvicina ai suoi fiori per sentirne il profumo si resta delusi, perché l’odore è tutt’altro che gradevole, per non parlare poi delle foglie che sono anche velenose.
La vita di Anna e l’ambiente che frequenta come le molte persone che lo popolano, sono così: come un oleandro. All’apparenza bello e perfetto, ma basta avvicinarsi, entrarci e conoscerlo un po’ meglio per scoprire che esiste una sottile patina invisibile che copre e protegge una realtà che è lontanissima dal vero. Una realtà che è falsa: per convenzione, per interesse o forse perché è più semplice fare così.
Anna ha un marito di successo, due figli per cui stravede, una bella casa gestita da una tata tuttofare di nome Cora, amiche e persino Javier, l’amante che vede due volte a settimana, perché negli altri giorni lui è con la figlia Galy. Cosa volere di più? Eppure qualcosa si rompe e non si aggiusta più, o forse sì, ma a lungo andare restano i segni come nel Kintsukuroi, l’antica arte giapponese del riparare le ceramiche frantumate. Quando un vaso va in mille pezzi, i maestri artigiani ne raccolgono i frammenti e li saldano, riempiendo le crepe sottili con pasta d’oro o d’argento. Non nascondono le fratture, ma le esaltano, poiché considerano che un vaso riparato mostri tanto la fragilità quanto la forza di resistere. In questo sta la vera bellezza. Anna diventa un vaso riparato in attesa di essere riempito con fiori che non siano però dei rami di oleandro. E’ più sola di quanto si creda, è fragile e insicura. Si è sempre fidata del marito e ha sempre fatto quello che le veniva detto di fare rispettando un’apparenza che prima che essere imposta è sempre stata innata in quella famiglia romana borghese, la stessa che riesce a non accorgersi o a passare sopra a bugie, a inganni, ad amare verità, a soprusi e ad accuse, a sotterfugi e a condanne. I segreti devono “restare sepolti” e “gli occhi chiusi”, questa è la regola. E’ vero che certi amori possono morire un giorno dopo l’altro, perché sono “senza scampo”, ma a ben guardare, “i tradimenti non esistono”. Al loro posto ci possono essere gli spazi, “ed è tra quelli che si infilano le persone”. Il suo spazio Anna lo sta ancora cercando, e non è facile in mezzo a quella fastidiosa duplicità di tutte quelle persone che le girano attorno che non sono poi così diverse da lei, una donna che ha sempre avuto tutto, dotata di quell’ingenuità tipica di chi pensa che alcune cose non possano accadere, perché sono troppo lontane dal proprio quotidiano. I desideri, le attese e le pretese, i progetti come le ambizioni sono incastonate in luoghi comuni e omologati in punti di riferimento dove “la colpa” non ha niente a che vedere con l’assenza, con la noncuranza, ma solo con il tradimento.
Fare figli non rende sicuramente le persone più felici, ma può aiutare.
Fidarsi troppo, però, può portare a delle conseguenze inaspettate e a loro modo tragiche, a ferite profonde che fanno male, ma queste passano se si considerano come delle crepe da cui far passare una luce nuova. Bisogna allora ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e tracciarvi a fianco nuovi cammini, come scrisse José Saramago in Viaggio in Portogallo, una frase che Federica De Paolis ha messo nell’esergo di questo libro dominato da una drammaticità crescente che conquista i lettori. “Bisogna sempre ricominciare il viaggio”, anche perché il viaggio, a differenza del viaggiatore, non finisce mai.
Giuseppe Fantasia