Sono passati centotrentotto giorni dal primo ricovero in terapia intensiva a Bergamo per Coronavirus, e l’altro ieri l’ultimo tampone è risultato negativo: la direttrice dell’ospedale ha detto che è stato un momento molto emozionante. Il sollievo è emozionante, ma noi abbiamo paura di dirci sollevati. Questo virus ci ha così feriti e umiliati che il sollievo ci sembra una forma di tracotanza, ci sembra che qualcuno verrà a bussarci su una spalla per dirci: non dovevi essere sollevato, era troppo presto. Quindi per paura di questa pacca sulla spalla io mi sto rovinando tutto il sollievo, o meglio vivo dentro un sollievo clandestino, di cui non parlo e che sono disposta a negare in qualunque momento, ho sempre tre o quattro mascherine nello zaino, piuttosto sporche ma significative, molti gel igienizzanti in tutte le tasche, lascio le scarpe all’ingresso come nel mese di marzo, e quando mia figlia dice: però dai che sollievo, è il momento di prendere un altro gatto, scuoto la testa contrariata (per il sollievo e per il gatto) e mia figlia allora dice: sembri la nonna. La nonna non accetta l’esistenza in sé del sollievo, perché è un atteggiamento mentale troppo rischioso, e vorrebbe tanto un gatto ma non lo ammette. Io, rispetto a lei, e rispetto a mia figlia che è totalmente sollevata e anche totalmente fissata con il gatto, mi metto in una posizione di mezzo. La posizione scaramantica dello struggimento: vorrei tanto essere sollevata e vorrei tanto un altro gatto, ma non ho abbastanza coraggio per assumermene la responsabilità.
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